Gianna Fregonara per “Il Corriere della Sera”
Curiosità, coraggio, talento? No, per essere cooptati, nelle imprese come nelle organizzazioni e nei posti decisionali, vince il conformismo, denuncia in un saggio il filosofo canadese Alain Deneault.
Il primo allarme era venuto dagli Stati Uniti: le prestigiose università della Ivy League, quelle da cinquantamila dollari l’anno (retta più vitto e alloggio) sfornano «pecoroni di eccellenza», un gregge di conformisti, un’élite – ci mancherebbe – preparata e competente ma incapace di «curiosità, ribellione, coraggio morale, stravaganza appassionata», aveva tuonato poco più di un anno fa in un polemicissimo pamphlet William Deresiewicz, professore scartato sì da Yale, ma appassionatamente informato di quel che succede lì.
Il conformismo vincente
Adesso a puntare il dito contro il conformismo vincente è un altro autore sempre dal continente americano. Il filosofo canadese Alain Deneault ha da poco pubblicato un saggio (non ancora tradotto in Italia) dal titolo eloquente:La Médiocratie (La Mediocrazia, edizioni Lux). Dov’è finito il genio? Il talento e il pensiero critico e scomodo sono scomparsi? Le idee luminose ma per questo anche fastidiose non sono più apprezzate. L’audacia delle scoperte sgradita, schiacciata dall’«estremismo del centro», della normalità. Se Deneault ha ragione saremmo già sprofondati in un nuovo modello socio-economico fondato sul predominio sociale e culturale dei «mediocri». O, forse sarebbe meglio chiamarli, i «mediani», nel senso di persone che sono mediamente competenti, mediamente informate e mediamente esperte. In altre parole normali. Ma proprio per questo assimilate, pigre, sbiadite. Cooptate, nelle imprese come nelle organizzazioni e nei posti decisionali, non tanto per le loro doti ma perché leali e affidabili, certamente esperte ma noiose, che fanno funzionare gli ingranaggi meglio di colleghi magari talentuosi ma fuori dagli schemi e dunque inaccettabili.
È una rivisitazione del principio di Peter (in una gerarchia ognuno arriva svolgere il lavoro per cui è incompetente) adattata al nuovo millennio quella contenuta nel Médiocratie di Deneault, un modello che porta secondo l’autore alla corruzione e alla disintegrazione della società. Una visione poco meno catastrofica di altra letteratura sull’argomento, che va da Flaubert a Marinetti fino al filone fantascientifico con il racconto «Null-P» di William Tenn, dell’inizio degli anni Cinquanta, che comincia con l’individuazione del modello dell’uomo medio e finisce con l’estinzione — nell’indifferenza dell’Universo — dell’umanità.
La mission delle università
Nel caso di Deresiewicz e di Deneault il dito è puntato innanzitutto contro il sistema educativo, le Università in primis che tendono, a loro avviso, a sfornare esperti di problem solving «disposti a compromessi pur di essere invitati al tavolo d’onore», fornitori di legittimità scientifica a chi li paga. Un tema che non è estraneo al dibattito nell’Università italiana e che spazia dalla critica ai sistemi rigidi di valutazione, come dimostra anche l’ultima ricerca pubblicata da Vincenzo Nesi della Sapienza, alla discussione sullo scopo stesso degli studi universitari. Ma neppure alla politica come si legge nel saggio di Andrea Mattozzi dell’European University Institute di Firenze e Antonio Merlo della Rice University di Houston: hanno dimostrato che i partiti possono scientemente scegliere di non ingaggiare i politici migliori per vincere le elezioni. Giudizi, questi sulla mediocrazia, invece un po’ troppo generici e tranchant secondo Massimiano Bucchi, professore di sociologia della scienza a Trento e autore del saggio «Per un pugno di idee, storie di innovazioni che hanno cambiato la nostra vita» (Bompiani): «È vero che oggi le istituzioni specialmente quelle scientifiche sono diventate sistemi molto grandi e complessi e devono poter funzionare a prescindere da chi c’è in quel momento. Ma non dobbiamo sottovalutare il fatto che siamo passati da una comunità scientifica di pochi scienziati a una professione, quella della ricerca scientifica, che riguarda ormai milioni di persone. E dunque io sono più d’accordo con Robert Merton quando sostiene che certe scoperte scientifiche sono inevitabili in un dato momento storico, che il genio che le interpreta è sì un acceleratore necessario ma il progresso ha uno sviluppo di sistema».Senza Albert Einstein la teoria della relatività si sarebbe scoperta lo stesso? «Probabilmente se la relatività non l’avesse scoperta Einstein l’avrebbe ricavata qualcun altro qualche anno dopo».