C’è una storia che merita di essere raccontata, è quella che riguarda il Palazzo di Donna Olimpia. Situato accanto a Porta San Pietro, uno dei varchi più antichi che si aprono nelle Mura cittadine, si erge questo monumentale fabbricato.
I partiti murari della massiccia costruzione raccontano le vicissitudini architettoniche che, a più riprese, sono succedute nel corso del tempo, parallelamente al mutamento di destinazione d’uso dello stabile.
La storia del palazzo inizia nel XIII secolo, quando fu eretto per divenire la sede dei monaci cistercensi di San Martino al Cimino e, come tale, era anche noto come Palazzo dell’Abate.
I cistercensi furono presenti a Viterbo sia nella compagine maschile che in quella femminile: i monaci, insediati nel complesso di San Martino al Cimino, abitarono nel palazzo presso Porta San Pietro, mentre le monache di clausura risiedevano nel convento di Santa Maria del Paradiso.
Le componenti duecentesche del grande palazzo dell’Abate, impostato su una pianta irregolare, sono più evidenti nel rigido apparato murario in conci di peperino del lato merlato addossato alla porta, di cui sono superstiti le due bifore con lunetta traforata.
L’edificio andò successivamente incontro ad alcune modifiche. Nel 1500 il cardinale Francesco Piccolomini, dopo essere divenuto commendatario dell’Abbazia di San Martino, prese possesso dell’antica residenza viterbese e la fece opportunamente restaurare. Poco dopo ne promosse l’ampliamento, con l’aggiunta di un corpo di fabbrica esterno alle mura urbane e ad esse inglobato, innestato obliquamente al preesistente.
Nel 1654 Donna Olimpia ricevette dal cognato, papa Innocenzo X Pamphili, il titolo di principessa di San Martino, entrando poi in possesso del palazzo viterbese. Successivamente il fabbricato originario fu prolungato fino a chiudere la circonvallazione interna ed unito alle case di via San Pietro.