Vecchi capi del Sisde e Mossad nella guerra sui diritti d’autore musicali. L’ex amministratore della PAS ha presieduto il lavoro di intelligence che vale la pene leggere in questo articolo pubblicato da l’Espresso e a firma di Emiliano Fittipaldi
Cause legali, ricorsi al Tar, decreti ingiuntivi, scontri frontali pubblici e privati. Ma l’idea da “fine mondo” per incastrare gli odiati concorrenti di Soundreef deve essergli venuta in mente ricordandosi di quando, giovane agente dei servizi segreti, era stato spedito dai capi del vecchio Sisde a Tel Aviv. A prendere appunti dai maestri del Mossad, che gli insegnarono, oltre all’arte del controspionaggio, pure ad analizzare il contenuto dei sacchetti di spazzatura, utilissima per profilare le persone di cui bisognava scoprire misteri e altarini.
Così lo scorso luglio, mentre l’Antitrust – su segnalazione di Soundreef e del suo numero uno Davide D’Atri – aveva appena avviato un’indagine per abuso di posizione dominante sulla Siae, questa ha chiesto ufficialmente a una società privata di investigazioni, la Ifi Advisor, di trovare ogni informazione possibile su Soundreef. È proprio Blandini a firmare il contratto da 400 mila euro, con cui paga spese e onorario non solo dell’italiana Ifi, ma anche i costi della società di intelligence israeliana Black Cube.
Diventati famosi in tutto il mondo dopo essere stati assoldati dal produttore della Miramax Harvey Weinstein per indagare sulle donne abusate che minacciavano di denunciarlo, sono gli agenti privati di Black Cube – con cui l’Ifi ha un accordo di esclusiva per l’Italia – ad incontrare, sotto mentite spoglie, D’Atri e altri amministratori di Soundreef, ex dirigenti, oltre ad associati famosi come il cantante Fabio Rovazzi. E sono sempre gli israeliani a sbobinare ore e ore di conversazioni, ad analizzare fonti aperte italiane e inglesi (Soundreef controlla una società britannica) e costruire un report finale intitolato “Progetto Spotlight”, dove si riportano le risultanze dell’indagine e presunti comportamenti discutibili e poco trasparenti della collecting che sta sfidando, con successo, la Siae.
«Lei mi sta chiedendo se ho dato l’ok a un atto di dossieraggio? Non scherziamo. La Siae è cliente di un’operazione di business intelligence, simile a quella che fanno decine e decine di aziende ogni anno», afferma Blandini. «Con gli investigatori di Ifi ho fatto un contratto cristallino. Ricordo che il mio dovere primario è quello di tutelare i miei associati, che oggi sono oltre 80 mila. Soundreef e i media italiani ci stanno attaccando da anni, dicono che noi siamo un carrozzone e loro una startup supercool, loro il coraggioso Davide e noi il cattivo Golia. Non è così. Ora sappiamo che combattiamo contro un concorrente sleale». L’Espresso ha sentito anche Davide D’Atri, che chiarisce subito che dalla Siae si aspetta questo, e altro: «Non ho nessuna preoccupazione delle conclusioni a cui è arrivato il loro dossieraggio. Noi siamo trasparenti, siamo persone corrette e per bene. Ad ogni accusa risponderò punto per punto».
Monopolio addio
Partiamo dalla descrizione del campo di gioco e dei protagonisti. La Siae, che dal 1942 intermedia e riscuote per conto di cantanti, autori, produttori ed editori i compensi derivanti da diritti d’autore, è monopolista del settore fin dalla sua nascita. Fino all’arrivo di Soundreef, è stata di fatto l’unica “collecting” a gestire e tutelare i diritti degli artisti e raccogliere le royalties delle opere concesse in licenza.
Un mercato che – sommando i vari “utilizzatori finali” come radio e emittenti televisive, concerti live, passando alla musica di sottofondo nei supermercati o ai giganti Google e Spotify – vale centinaia di milioni di euro l’anno: la Siae, nel bilancio del 2017, segnala come il suo giro d’affari complessivo superi i 776 milioni, di cui 573 milioni di diritto d’autore puro. Soldi che poi finiscono in gran parte nelle tasche degli autori, escluse le provvigioni trattenute dall’ente (circa 160 milioni di euro l’anno) che servono a pagare il costo della struttura, gli stipendi della dirigenza e dei 448 agenti mandatari Siae, ossia il personale che sul territorio raccoglie i diritti da teatri, negozi, spettacoli e qualsiasi soggetto che usi opere d’ingegno degli associati.
Circa mezzo miliardo di euro, dunque: è la fetta di torta diventata contendibile circa un anno fa, quando una direttiva europea recepita dal governo italiano, la Barnier, ha imposto anche all’Italia una liberalizzazione del settore, permettendo ad altri commensali di sedersi al tavolo. Da allora, lo scontro è totale. La battaglia infuria tra la dirigenza di Siae e quella di Soundreef: secondo Blandini i giovani concorrenti – che autocertificano 14 mila autori in Italia e 31 mila nel mondo – non rispettano le nuove norme europee, secondo le quali le società di collecting, anche se private, possono operare solo se enti no profit e/o governate dagli associati. Ma non basta: anche Sky e Rai sono andate alle vie legali contro il vecchio monopolista.
Il gigante cattivo
Leggendo le carte delle prime risultanze dell’istruttoria dell’Antitrust aperta ad aprile 2017 per abuso di posizione dominante, sembra chiaro che i “cattivi” sarebbero quelli di Siae. Che secondo gli ispettori dell’Autorità Garante della Concorrenza avrebbero difeso il loro monopolio con ogni mezzo. Per difendersi da Soundreef, Blandini, il presidente Filippo Sugar e gli altri vertici avrebbero monitorato le attività dei «Soundreef boys» attraverso «riunioni di vertice aventi cadenza settimanale», con strategie mirate sia sul piano della comunicazione («nell’ottica di scoraggiare i richiedenti», cioè i musicisti e gli autori che chiedevano informazioni sulla concorrenza), sia su quello dei controlli su concerti, centri commerciali e negozi, effettuati «con evidente finalità strumentale». Oltre, sostiene l’Antitrust, a ricorrere a «sofisticate elaborazioni giuridiche tutte convergenti nel far sì che Siae continui interamente a gestire i diritti di autori che invece hanno espresso chiaramente una diversa volontà». Come nel caso di Gigi D’Alessio, che insieme al rapper Fedez è il più famoso cantante ad essere passato con Soundreef.
Non solo l’ente gestirebbe «indebitamente» anche autori «che non le hanno conferito alcun mandato», ma le condotte abusive si sarebbero verificate anche nei rapporti con le televisioni, un mercato che nel 2016 ha portato un incasso di oltre 186 milioni di euro. Con le tv la Siae firmerebbe contratti basati su un «sistema farraginoso e inefficiente, incompatibile con uno sviluppo concorrenziale dei mercati». L’Antitrust cita in particolare il caso di Sky (anche lei ricorrente nello stesso procedimento) con cui Blandini e i suoi uomini adotterebbero invece di «una leale negoziazione, comportamenti unilaterali».
Anche Sky, in effetti, è scesa sul campo di battaglia. Nei mesi scorsi la tv satellitare ha preso una decisione senza precedenti, scegliendo – in assenza di rinnovo di contratto e di nuove negoziazioni, davanti a un quadro normativo considerato radicalmente cambiato – di congelare parte dei pagamenti all’ente e ai suoi associati, nonostante l’utilizzo (come a “X Factor”) di moltissimi contenuti creativi.
Un braccio di ferro che ha fatto infuriare oltre mille artisti, tra cui i premi Oscar Bernardo Bertolucci, Ennio Morricone, Nicola Piovani e Gabriele Salvatores, che hanno scritto una lettera aperta a difesa di Siae, in cui si attacca la tv di Rupert Murdoch a testa bassa. «Abbiamo a cuore tutti i soggetti che concorrono alla crescita di questa industria, ma è necessario che Siae riconosca l’apertura al mercato e la libertà di scelta degli autori», hanno però risposto gli amministratori di Sky. «Noi non riscontriamo un’adeguata disponibilità di Siae a condurre negoziati secondo logiche coerenti con il nuovo assetto di mercato».
Traducendo, Sky vuole sedersi al tavolo, ma vuole rinegoziare i contratti pagando meno di quanto sborsava prima. Il ragionamento è semplice: al tempo in cui l’ente presieduto da Sugar era assoluto monopolista, aveva nel suo “portafoglio” il 100 per cento degli autori. «Ora che ne ha certamente meno, con l’ingresso di altre collecting come Soundreef, vorremmo sapere quanti sono con precisione i loro associati, in modo da versare il giusto ad ognuno. Nulla di più, nulla di meno», chiosa una fonte interna dalla sede di Milano. Nella lettera i 1000 e più firmatari criticavano, oltre Sky, anche l’Antitrust (come se già si aspettassero i risultati dell’istruttoria). Registi, cantanti e sceneggiatori temevano infatti che l’Autorità potesse «aderire a un disegno che favorisce gli interessi di gruppi internazionali». Che attaccando la Siae vorrebbero in realtà versare meno soldi agi artisti e agli editori, mettendo di conseguenza in difficoltà – questa la preoccupazione – soprattutto quelli più piccoli e marginali.
Non sappiamo se gli ispettori guidati da Giovanni Pitruzzella abbiano letto l’appello, ma di certo le conclusioni della loro istruttoria sono durissime: dal gennaio 2012 ad oggi Siae avrebbe infatti posto in essere «un abuso di posizione dominante molto grave» e le sanzioni comminate dovranno essere conseguenti. Siae avrà ancora qualche settimana per difendersi dagli strali dell’Antitrust, ma in molti temono che la sentenza sia già scritta. «Ora il rischio concreto è che le regole del gioco siano riscritte solo a vantaggio dei broadcaster e dei grandi utilizzatori, a danno dei piccoli autori ed editori e dei repertori più fragili che entro pochi anni rischiano di sparire, come la lirica, il teatro, le opere letterarie e la danza», ragiona Blandini. «Soprattutto, non mi capacito come mai abbiano ricondotto i nostri presunti abusi al 2012, quando la direttiva Barnier nemmeno esisteva».
Il progetto spotlight
Mentre lo scontro legale infuriava, gli investigatori di Ifi (guidata da Romolo Pacifico e presieduta da Umberto Saccone, ex generale per 25 anni al Sismi e per altri otto a capo della sicurezza dell’Eni) e gli agenti di Black Cube iniziavano il loro lavoro di intelligence. Obiettivo: scoprire ogni punto debole di Davide D’Atri, dei suoi soci e delle attività industriali di Soundreef. D’Atri è stato sottovalutato a lungo dal vecchio gigante: romano ed intraprendente, residente a Londra per anni, appena trentenne Davide apre una società in Inghilterra per vendere musica d’ambiente, con pezzi originali spesso scritti direttamente dai software dei computer. Poi, dopo aver costituito la Soundreef Ltd a Londra, grazie al sostegno di fondi d’investimento come la Vam di Marco Piana e Matteo Fago, nel 2011 D’Atri decide di tornare a casa, crea una spa italiana omonima (che oggi controlla quella inglese). I soci più rilevanti, ad oggi, sono D’Atri e la Vam, Gabriele Valli e Luca Del Fabbro.
A parte l’analisi delle fonti aperte (visure, social network, documenti pubblici), il metodo della società israeliana è simile a quello di alcuni programmi tv: costruire profili sotto copertura e presentarsi con identità fittizie, in modo da potersi avvicinare e parlare con soggetti che possono avere informazioni sensibili per i loro clienti che non siano di pubblico dominio. «Mi spiace, ma la nostra policy è quella di non discutere dei nostri clienti con parti terze, compresi i giornalisti. Le posso solo dire che Black Cube supporta il lavoro di molti dei maggiori studi legali al mondo raccogliendo prove in supporto di complesse cause legali. E che operiamo sempre in piena conformità delle leggi dei paesi nei quali operiamo, Italia compresa», chiosa un dirigente da Tel Aviv. È noto, in effetti, che nel 2016 gli israeliani assistirono la multinazionale assicurativa AmTrust in una serie di arbitrati aperti con il broker italiano Antonio Somma, che – scrive il Corriere della Sera – fu registrato dagli investigatori privati mentre «affermava sicuro» che nei due arbitrati «avrebbe ottenuto decisioni favorevoli per 400-500 milioni di euro», visto «era in grado di “controllare” i collegi arbitrali» (per la cronaca, il giudice fu effettivamente ricusato).
I casi Weinstein, Somma e Siae mostrano quali sono le tecniche di Black Cube. I vari “target” vengono irretiti con una “cover story” inventata, supportata da “infrastrutture”, come la costruzione di siti internet falsi, profili social, società inesistenti, linee telefoniche farlocche, indirizzi mail, persino uffici di società fantasma. Sul modello del film “La Stangata” con Paul Newman e Robert Redford, in cui i protagonisti mettono in piedi – per vendicarsi del cattivo di turno – una finta agenzia di scommesse con attori, comparse e quinte teatrali.
Black Cube sembra avere ancora più fantasia: a novembre 2017 D’Atri viene infatti contattato via mail da un’agente, tal Eva, che dice di volerlo invitare come speaker a una conferenza a Londra. Il capo del marketing di Soundreef Massimo Scialò, professionista del settore che ha lavorato in mezzo mondo, viene chiamato da un altro investigatore, che si finge dirigente di un fondo d’investimento sudamericano, interessato ad esportare la filosofia di Soundreef in America latina. L’altro socio forte, Valli, finisce a chiacchierare con un agente che gli racconta di rappresentare un fondo di private equity, infarcito di capitali di ricchi arabi del Golfo Persico. Fabio Rovazzi viene agganciato da un investigatore che si presenta come l’emissario di un magnate americano, intenzionato a organizzare una grande festa per la figlia sedicenne su un’isola caraibica: per l’evento, vuole solo e soltanto il cantante di “Andiamo a comandare”.
Durante gli incontri, avvenuti al bar o in ufficio, gli agenti cercano di ottenere informazioni sul business model di Soundreef. In particolare, sui temi che interessano il cliente, ossia la Siae. Nel report si legge che D’Atri dice all’interlocutore che, aumentando il debito per crescere, in quattro anni il fatturato potrebbe arrivare «a 200 milioni», e che la strategia per conquistare artisti importanti si fonda sui contratti pluriennali e sul pagamento in anticipo. «Un metodo applicato però solo ad artisti famosi. Una volta che l’artista firma, non può liberarsi», sintetizzano gli israeliani. Che aggiungono – prendendo spunto dalle parole di Valli all’agente, che «Fedez sarebbe stato pagato due volte», una per l’anticipo dei diritti e un’altra volta «per la sponsorizzazione».
Blandini prima spiega di non aver voluto acquisire formalmente da Ifi e Black Cube tutto il lavoro degli agenti («ho deciso di non colpire sotto la cintura, come invece fanno loro»), poi afferma che le pratiche di Soundreef sarebbero discriminatorie. «Anche noi paghiamo un anticipo a un autore calcolando la sua media storica di incassi, ma lo facciamo per tutti, senza distinzioni. E per un solo anno. Qui sembra che Soundreef faccia campagna acquisti promettendo un minimo garantito solo a qualcuno, come a Fedez e D’Alessio, e che vincoli per più anni i suoi artisti. Tutte cose vietate dalla direttiva Barnier».
Se l’unica cosa che i detective riescono a sapere da Rovazzi è che il suo contratto non scadrà nel 2017, D’Atri (che preferisce non commentare il presunto contratto di sponsorizzazione offerto a Fedez, che quando lasciò la Siae per Soundreef disse di averlo fatto per sostenere la «trasparenza e la meritocrazia»; né il manager romano vuole approfondire il tema dei 2,5 milioni di euro, che sarebbero stati girati a D’Alessio per chiudere un contratto di 5 anni) risponde tranquillo al nemico: «La Siae, con i suoi investigatori, scopre l’acqua calda. È ovvio che chi viene da te vuole le stesse garanzie che dà Siae. L’errore che fanno Blandini e i suoi uomini è quello di pensare che noi lo facciamo solo con i vip. Noi lo facciamo con tutti. Ci sono piccoli autori a cui ho anticipato 1000 euro, te li faccio conoscere. In più i nostri associati possono andarsene quando vogliono. Basta che restituiscano gli anticipi che hanno preso. E comunque voglio proprio vederlo un tribunale che sentenzia che noi, una collecting privata, non possiamo fare contratti a 3, 4 o 5 anni».
Gli investigatori hanno anche preso informazioni sul lavoro di lobby di Soundreef verso politici e istituzioni, e indagato sui profili della società inglese. Nel dossier viene segnalato come più di uno degli animatori di Soundreef dica che nella sede inglese non ci lavorano più di due o tre persone, e che la Ltd sarebbe solo un escamotage per aggirare la legge monopolistica italiana. Per Blandini «c’è l’ipotesi concreta di un esterovestizione. Ora abbiamo scoperto che a Londra c’è solo un citofono e un amministratore che fa pure il segretario di se stesso. Noi le tasse le paghiamo in Italia, nel 2017 abbiamo dato all’erario Iva per ben 120 milioni di euro. Loro operano quasi solo nel nostro Paese, e l’Iva non la pagano». D’Atri, che non smentisce l’esiguo numero di dipendenti londinesi, spiega invece all’Espresso che è vero che è la società inglese ad incassare, ma che «quando non si paga l’Iva, nelle transazioni delle royalties verso l’estero esiste l’applicazione della ritenuta d’acconto alla fonte. Che è del 30 per cento, più dell’imposta che paga Siae».
La battaglia legale infuria, infine, anche su “Lea”. Ossia l’associazione no profit con cui Soundreef si è accordata a gennaio per poter operare in Italia. Per Black Cube, Valli l’avrebbe definita nel colloquio con un suo agente un’associazione «fittizia», nata per poter incassare i diritti d’autore degli artisti Soundreef. Anche la Siae, con Blandini, definisce la Lea «un negozio in frode alla legge, guidata da persone che trovi dentro Soundreef e altre in pieno conflitto di interessi». In effetti negli organi sociali c’è il papà di D’Atri, Roberto, e il figlio di Valli. C’è pure Claudio Mancini, deputato Pd appena rieletto alla Camera e uomo considerato vicinissimo a Matteo Orfini. Il presidente democrat è da sempre grande fan di Soundreef, definito lo scorso ottobre «un prodotto innovativo in un sistema imbalsamato».
D’Atri scuote la testa, senza scomporsi: «Non so se Valli ha detto che Lea è un ente fittizio, glielo chiederò, ma nonostante sia mio socio ha un ruolo marginale nell’operatività della società, e molte cose non le sa. Ovvio che in Lea ci sono persone che conosciamo e di cui ci fidiamo, e capisco che accusarci di essere in realtà due facce della stessa medaglia fa parte del gioco. Ma anche qui dimostrarlo in tribunale sarà, per Siae, un altro paio di maniche». Avendo speso 400 mila euro per il lavoro degli 007 privati di Black Cube, Blandini deve sperare adesso che i documenti raccolti possano servire alla causa, e invertire una partita che sembra in salita. Nonostante tutto, il direttore di uno degli enti più criticati del Paese resta ottimista: «Non sembra, ma noi siamo i buoni. E alla fine i buoni vincono sempre». ”