La consigliera regionale del Movimento 5 Stelle chiede per quale ragione, a livello politico-amministrativo, per anni nessuno si sia accorto di nulla in merito alle attività della cooperativa “Piccolo Carro”, che gestisce strutture per l’accoglienza di minori. «Sottrarre i minori alle proprie famiglie deve essere l’extrema ratio, non una prassi fatta alla leggera per parcheggiare per anni questi ragazzi in strutture che altrimenti rischiano di diventare redditizie “prigioni senza sbarre”».
Di Maria Grazia Carbonari, consigliere regionale M5S Umbria
“La Nazione” di oggi riporta la notizia della richiesta di rinvio a giudizio emessa per truffa aggravata a carico dei titolari della cooperativa “Il Piccolo Carro”, Cristina Aristei e Pietro Salerno.
L’accusa si basa sulla circostanza che la cooperativa per anni avrebbe ospitato nelle proprie strutture minori con problematiche socio-sanitarie, pur avendo soltanto l’autorizzazione come comunità socio-educativa (come confermato da una interrogazione parlamentare M5S del 2016).
La differenza non è di poco conto: una retta di circa 400 € al giorno per ciascun ragazzo con problematiche “socio-sanitarie” rispetto ai circa 120 € giornalieri dei “socio-educativi”. Un fatturato annuo di circa 4,5 milioni di euro.
Dal 2016 ci siamo battuti in ogni sede istituzionale per fare luce sul caso “Piccolo Carro”, con l’aiuto fondamentale di tante persone. Si è aperto un “Vaso di Pandora” con tanti elementi inquietanti su cui ho ampiamente scritto.
In attesa che le molteplici vicende giudiziarie si concludano senza prescrizione (tra cui quella sulla morte della giovane Daniela Sanjuan), a livello politico e amministrativo resta da chiarire come sia stato possibile che per anni nessuno sembra essersi accorto di nulla.
La gestione dei minori fuori famiglia deve tornare al centro del dibattito politico. Servono controlli seri e indipendenti su chi dispone di essi, chi sceglie le strutture, chi eroga fondi pubblici.
Sottrarre i minori alle proprie famiglie deve essere l’extrema ratio, non una prassi fatta alla leggera per parcheggiare per anni questi ragazzi in strutture che altrimenti rischiano di diventare redditizie “prigioni senza sbarre”.