Addio Sean Connery. L’attore scozzese è morto la scorsa notte nella sua villa alle Bahamas. La scorsa estate aveva compiuto 90 anni. Lontano dagli schermi oramai dal 2003 (La leggenda degli uomini straordinari), la sua ultima immagine, una foto paparazzata pochi mesi fa con un teleobiettivo era stata pubblica dai tabloid inglesi recentemente.
Mentre risalgono al 2017 le foto ufficiali della sua presenza in tribuna, tra l’altro in notevole forma, agli US Open. Eppure Connery, amato da tutte le donne (e chissà anche da molti uomini) del mondo, rimarrà immortale – più lui, Ramirez, che l’highlander botulinizzato Christopher Lambert – vestito in smoking, pistola d’ordinanza, parrucchino, brillantina e sorriso affabile nella silhouette universale di James Bond. L’agente 007 inventato da Ian Fleming che Connery interpretò per la prima volta nel 1962, 007 – Licenza di uccidere (in originale Doctor No) – diventerà la sua incredibile fortuna professionale, come del resto anche una sorta di clichè zavorra difficile da mettere da parte per nuovi ruoli. Anche se nel 1987, con il sergente di polizia Malone de Gli Intoccabili, per il quale vinse un Oscar come attore non protagonista, fu davvero un’interpretazione di valore immenso. In Connery ovvero in quel suo elegante e mai scomposto Bond, sempre sugli scudi, sempre in pericolo, ma sempre disinvolto e audace nel tirarsi fuori dalle trappole mortali più sadiche impostegli dai suoi nemici, gli spettatori riconobbero subito una sorta di presenza rassicurante, fisicamente aitante e fascinosa, che gli rimase appiccicata addosso come un marchio di fiducia senza tempo.
Già, il corpo come croce e delizia di Connery, ragazzone alto e robusto nato ad Edimburgo da papà camionista e mamma cameriera. Fisico slanciato, atletico, proporzionato, con un viso ed un sorriso magnetici, eppure con un problema non da poco di cui molti non si accorsero da subito. Connery già da giovanissimo era calvo. Tanto che il toupet utilizzato per farlo diventare 007 rimase segreto per alcuni anni, fino a quando ne La collina del disonore (1965), un sottovalutato film antimilitarista di Sydney Lumet, con Connery protagonista soldato ribelle in un campo di prigionia, si cominciò a scorgere il parrucchino mancante di Bond. Connery aveva fatto di tutto nella vita, prima di iniziare a 19 anni, una breve carriera da modello (anche nudo). La partecipazione a Mister Universo (1953), dove arrivò terzo, fu il suo trampolino di lancio per la carriera d’attore, tanto che sul finire degli anni cinquanta interpretò piccole parti in film per la tv diretti da registi inglesi e anche in una produzione Disney.
Poi all’improvviso la luce. Albert Broccoli e Harry Saltzman, detentori dei diritti della spy story di Fleming, scelgono senza grande entusiasmo, dopo aver scartato ogni attore possibile (Cary Grant, Rex Harrison, Gregory Peck, David Niven, Trevor Howard, ma anche il vincitore del concorso indetto proprio per quel ruolo, tal Peter Anthony), lo sconosciuto Connery (la particina nel kolossal Il giorno più lungo è successiva al set di 007 anche se risulta dello stesso anno). Al trentaduenne attore scozzese fanno stipulare un contratto per cinque film. Connery ne interpreterà poi sei. Ma il successo arriva subito nel ’62. Dopo seguono: Dalla Russia con amore, Missione Goldfinger (dio quanto ci piace questo film e la sequenza di Bond che sta per essere tagliato in due da un laser), Thunderball e Si vive solo due volte. Ricoperto letteralmente d’oro, Connery lascia. Capisce che a continuare si farebbe solo del male. Così lasciando in ambasce Broccoli&co, che infatti scelgono per rimpiazzarlo il fiasco George Lazenby, Connery si avventura nel mare aperto di una Hollywood che comunque sta cambiando pelle cinematograficamente ed esteticamente.
La tradizionale figura tutta d’un pezzo del bellone anni cinquanta/sessanta non tira più di fronte a nuovi modelli di fascino maschile più attenti a doti più caratterialmente stanislavskijane (si pensi ai Pacino, Hoffman, Redford). Tra il ’69 e il ’71 non ha grande fortuna tra il western atipico Shalako, la grande produzione italo-russa de La tenda rossa (dove interpreta l’esploratore Amundsen) e il bel film storico politico di Martin Ritt, I cospiratori, dove con un ciuffo ribelle interpreta un capo incazzato di un gruppo di minatori nella Pennsylvania del 1876. Il flop dello 007 con Lazenby spinge la produzione a richiamare Connery che, a sua volta, non era riuscito a rilanciarsi oltre lo smoking dell’agente segreto al servizio di sua maestà. Siamo nel 1971, Connery tentenna, ma alla fine cede per il compassato capitolo della saga Una cascata di diamanti. Ritorno comunque felice, anche se è il seguito che torna a far preoccupare il quarantenne Sean.
Nel 1974 si dà alla fantascienza, protagonista di Zardoz di John Boorman, titolo curioso e sui generis, ma non memorabile; seguito poi da un buon successo di pubblico in Assassinio sull’Orient Express, sempre regia di Lumet; e poi nel 1975, con due interpretazioni in cui mostra doti che vanno ben oltre lo sguardo sciupafemmine, rimaste però sempre laterali, ai margini del mainstream dell’epoca. Fa coppia con uno scoppiettante Michael Caine, ne L’uomo che volle farsi re di John Huston, interpretando un lestofante avventuriero di fine ottocento che assieme al compare vuole conquistare il titolo di re di una ignara tribù; poi è un attempato e acciaccato Robin Hood in Robin e Marian di Richard Lester assieme a Audrey Hepburn. Come dire, per noi, basterebbe già. Idolo dei nostri cuori e delle nostra cinefilia autoriale anni settanta. Però a Connery qualcosa non torna. Manca la parte della vita, quella che lo faccia uscire almeno per una volta dal ruolo di James Bond. Ne prova diverse per almeno sei sette anni, fino a quando torna a passare dal via. Nel 1983 riveste i panni di 007, in Mai dire mai, che oramai anche i sassi sanno non essere capitolo ufficiale della saga inventata da Fleming, perché non prodotto da Broccoli e dalla United Artists. Connery dà vita comunque ad un Bond ultraquarantenne che già si lecca le ferite di una vita di spia.
Sarà tra l’altro il regista Irving Kershner a suggerire il titolo del film su una frase detta da Connery nel 1969 dopo l’ultimo suo Bond: “Mai dire mai”. Volente o nolente, l’icona che l’ha marchiato per sempre lo rilancia e per sette anni dà vita a personaggi che gli faranno vivere la fase della maturità. Dicevamo in apertura del ruolo di Ramirez in Highlander, a cui seguono l’arguto, risoluto e potente frate Guglielmo da Baskerville ne Il Nome della Rosa e nel 1986 finalmente la consacrazione, con Oscar, dello splendido poliziotto irlandese della Chicago proibizionista anni venti: il Jimmy Malone de Gli intoccabili. Il film di De Palma sprizza sangue e glamour da tutti i pori. Mentre al pool speciale anticorruzione di Elliott Ness (un Kevin Costner da urlo) per incastrare Al Capone (Robert De Niro “siete solo chiacchiere e distintivo”) si aggiungono la recluta Andy Garcia, l’esperto fiscalista Oscar Wallace e Malone. Il poliziotto scafato e saggio, schizzato anche lui dal fango della corruzione imperante, ma onesto quanto basta per diventare il simbolo della lotta contro il male e leader morale del piccolo gruppo. Script di David Mamet, colonna sonora sontuosa di Morricone, Connery muore ucciso barbaramente, crivellato di colpi, sanguinante e urlante dentro casa, in una delle sequenze più tragiche della storia del cinema. Morte che Ness vendicherà in un’altra vertigine visiva di questo capolavoro di De Palma.
Va bene, aggiungiamoci pure un’altra particina per l’amico Lumet – Sono affari di famiglia (1989), mettiamoci pure Caccia a ottobre rosso (1991), ma oramai per Connery nemmeno sessantenne è giunto il momento dei camei da grande vecchio: si veda il re Riccardo in Robin Hood principe dei ladri (sempre Costner ad attenderlo per la consacrazione); Il primo cavaliere, un’opera un po’ pacchiana ma è su grande schermo a contendere la palma di più figo con niente meno che Richard Gere; infine infine gareggia in avventuroso istrionismo, febbrile archeologica ironia, in Indiana Jones e l’ultima crociata (1989), dove ricopre il ruolo del papà di Indy (Harrison Ford), chiudendo da star di Hollywood che non ha più niente da chiedere alla sua carriera d’attore. Si ritirerà nella sua amata villa delle Bahamas, con l’altrettanto amata moglie Micheline (45 anni di matrimonio), a giocare a golf, e rifiutando la parte di Gandalf ne Il signore degli anelli.