Presentata l’ennesima proposta di legge sui debiti fuori bilancio. La Regione condannata a pagare oltre 2 milioni di euro alla società di Aprilia perché inadempiente e “si è limitata a costituirsi in giudizio, ma non ha prodotto scritti difensivi”. Adesso la Corte dei Conti può chiederne conto ai brillanti amministratori regionali
ROMA – Ancora una volta l’ostracismo verso un’azienda si traduce in danni che pagano i cittadini laziali. La causa affidata all’Avvocatura regionale guidata dall’avvocato Rodolfo Murra.
L’8 novembre 2021 la Giunta regionale guidata da Nicola Zingaretti ha presentato l’ennesima proposta di legge per il riconoscimento di debiti fuori bilancio.
Con il solito metodo: relazione tecnica e tabellina senza specificare a cosa corrispondono le spese. E, subito, balza agli occhi un debito di 2.033.624,19 euro a favore di RIDA Ambiente per una Sentenza del TAR per il Lazio n. 1443/2021 (RG n. 4719/2010 e 8591/2010 riuniti).
Sentenza ribadita dal Consiglio di Stato che ha bacchettato la regione anche dal punto di vista dell’atteggiamento processuale.
Ancora una volta i giudici ribadiscono l’atteggiamento ostativo degli uffici regionali nei confronti dell’azienda RIDA di Aprilia, da anni vittima delle condotte degli uffici e dei funzionari che ne hanno determinato un danno consistente.
La Giunta pensava di far passare questa ennesima proposta di legge regionale sui debiti fuori bilancio in cavalleria. Come succede da anni, tranne le occasioni in cui la caparbietà del consigliere regionale Chiara Colosimo ha portato alla luce sprechi milionari.
Su tutte ricordiamo la parcella di quasi 5 milioni di euro dell’avvocato Clarizia che la Giunta ha provato a rifilare al Consiglio regionale senza fornire nessuna specifica. Spesa su cui, come emerso dalla relazione dell’Avvocatura regionale, adesso indaga anche la Corte dei Conti.
Questa volta, però, la nostra redazione ha dato un’occhiata alla sentenza del Consiglio di Stato e quello che è emerso è veramente incredibile.
“Nel febbraio 2009 Rida Ambiente ha ottenuto la AIA dalla Regione, senza tuttavia che, nel relativo provvedimento, venisse indicata, come pure previsto dalla legge regionale, la ‘tariffa di accesso’, ossia il prezzo ‘sorvegliato’ applicabile a carico dei Comuni conferenti.
L’indicazione della tariffa è stata quindi espressamente chiesta dall’impresa alla Regione nell’agosto 2009, il relativo procedimento è stato avviato nel dicembre 2009 ma l’istanza è stata respinta con provvedimento del 18 marzo 2010, impugnato avanti il TAR LAZIO con ricorso n.r.g. 4719 del 2010.
Con successivo ricorso n.r.g. 8591 del 2010, la società ha poi chiesto anche il risarcimento dei danni nei confronti della Regione e dei singoli funzionari che si erano occupati della vicenda. Frattanto l’ARPA – cui la Regione aveva formalmente chiesto chiarimenti sull’idoneità tecnica dell’impianto medesimo a trattare RSU – aveva confermato, con parere del 4 marzo 2010, la piena idoneità tecnica dell’impianto nei limiti autorizzati con l’AIA del 2009 (300 tonnellate al giorno “senza nessuna ulteriore limitazione sui quantitativi per ciascuna tipologia di codice CER”).
Fatte queste premesse il Tar ha dichiarato improcedibile il ricorso n.r.g. 4719 del 2010, giacché “la stessa ricorrente ha dato atto che, successivamente all’introduzione del giudizio, la Regione Lazio ha, dapprima, rilasciato una tariffa di accesso c.d. “provvisoria”, in data 28 luglio 2010, e quindi, in esecuzione di sentenza di questo Tribunale, che ha accolto il ricorso proposto dalla scrivente avverso l’illegittima inerzia serbata dall’Amministrazione – la tariffa “definitiva”, con provvedimento del 3 luglio 2015”; accogliendo la domanda risarcitoria svolta nei confronti della Regione.
Questo il racconto dei fatti ma quello che sconvolge è l’atteggiamento tenuto dalla regione. Che ha istruito l’ennesimo giudizio amministrativo presso il Consiglio di Stato con nessuna possibilità di vittoria. Tanto, a pagare, sono i cittadini laziali.
Questo atteggiamento è stato sottolineato senza mezzi termini dai giudici amministrativi: “Il ricorso è stato trattato alla pubblica udienza del 28 ottobre 2021, in vista della quale la sola appellata ha prodotto difese scritte, in cui, tra l’altro, ha sostenuto che: ‘è da ritenere tardivo e inammissibile, in questa sede, il deposito della memoria che la Regione non ha operato”; l’appello è inoltre inammissibile nella parte in cui si traduce nella mera riproposizione in forma più estesa di argomenti già ampiamente vagliati e motivatamente respinti dal Tribunale Amministrativo, senza che la Regione appellante si sia fatta carico di censurare specificamente i relativi capi di sentenza e di spiegare le ragioni per cui il giudice di primo grado, tenuto conto degli specifici elementi di fatto rimasti in primo grado incontestati, sarebbe incorso in errore’.
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Con una conclusione che è un vero e proprio atto di accusa alla linea difensiva adottata dalla regione: “nessun elemento a discolpa è stato addotto dall’Amministrazione intimata, in quanto la Regione Lazio si è limitata a costituirsi in giudizio, ma non ha prodotto scritti difensivi”.
Difesa affidata all’avv. dall’avvocato Teresa Chieppa, appartenente all’Avvocatura regionale, guidata dall’avv. Rodolfo Murra. Inutile dire che la regione è stata anche condannata a pagare le spese per l’inutile giudizio. Tanto “Pantalone paga per tutti”. Però, almeno questa volta, la Corte dei Conti non può non intervenire.