VITERBO – Cognati picchiati e rinchiusi in una buca perché sospettati di furto, definitiva la condanna a un anno e 4 mesi a un imprenditore delle nocciole di 37 anni. La Corte di Cassazione – scrive Riganelli sulle colonne de Il Messaggero – ha messo la parola fine su una vicenda iniziata a gennaio del 2017, confermando le sentenze di primo e secondo grado.
I fatti risalgono a lunedì 23 gennaio 2017, quando le vittime sarebbero state chiamate dal titolare dell’azienda dei Cimini, dove lavorava uno dei due, dopo che la scoperta di un furto di attrezzi. Dello stesso giorno il pestaggio.
Raccontarono durante la prima udienza dalle vittime: «Mi hanno puntato una pistola alla fronte, fatto inginocchiare e picchiato con una spranga di ferro, fino a spaccarmi la testa. Il titolare era convinto che fossimo stati noi a rubare gli attrezzi dal capannone. La domenica, io e mio cognato, col suo permesso, abbiamo preso in prestito una motosega, subito restituita. Il giorno dopo ho scoperto che nel capannone c’era stato un furto e ho avvisato il titolare. La sera mi ha detto di andare da lui.
Pensavo volesse accordarsi per il giorno dopo. Una volta dentro abbiamo visto che c’erano altre persone. L’imprenditore ha iniziato a dirci che dovevamo restituire tutto quello che avevamo rubato, mentre un terzo uomo ci ha ordinato di inginocchiarci, puntandomi una pistola».
Un racconto confermato anche dalle parole dell’altra vittima: «Ci ha massacrato con una spranga di ferro. Ha anche sparato un colpo di pistola. Poi ci hanno rinchiusi in una di quelle buche che si usano per riparare le macchine. E per non farci uscire hanno spinto un bobcat sulla griglia di recinzione. Urlando che ci avrebbero dato fuoco».
Il Tribunale di Viterbo condannò l’imprenditore e il suo aiutante albanese a un anno e 4 mesi per l’aggressione e il sequestro di persona. Il difensore del 37enne ha presentato ricorso in Cassazione sostenendo che le due persone offese non fossero attendibili e che non fossero state concesse le attenuanti generiche al suo assistito. «Il ricorso – ha spiegato la Cassazione nelle sentenza – è inammissibile. C’è un’assoluta sproporzione tra la condotta degli imputati e il fatto ingiusto altrui. E la versione delle persone offese è del tutto credibile».