Quattro ore di arringa che per il 33enne viterbese chiedono l’assoluzione piena dopo anni di gogna e sofferenze
VITERBO – Per gli avvocati Carlo Taormina e Fausto Barili, il loro assistito Manuel Pecci è “rimasto coinvolto in un fatterello fatto diventare una montagna”.
Un “fatterello” (così lo hanno definito) che ha fatto finire l’imprenditore viterbese 33enne prima in manette e poi alla sbarra per estorsione con l’aggravante del metodo mafioso, in uno dei processi nati dalla maxinchiesta Mafia viterbese che nel 2019 ha sgominato una pericolosa organizzazione criminale capeggiata da Giuseppe Trovato e Ismail Rebeshi.
Un lungo periodo di sofferenza e gogna mediatica a cui è stata sottoposta una persona estranea ai fatti e innocente.
Secondo l’accusa, che tramite il pm Fabrizio Tucci della Dda ha chiesto una condanna a sette anni e mezzo di reclusione, Pecci avrebbe ingaggiato il boss Trovato per stroncare le pretese risarcitorie di un cliente (ristoratore di professione) del suo centro estetico dopo un trattamento non andato a buon fine.
“Un fatto di vita corrente – hanno detto in aula i difensori Carlo Taormina e Fausto Barili nelle quattro ore di arringa – che può capitare a tutti. Un fatto che per Pecci è nato e morto nello stesso giorno, in poche ore del 13 dicembre 2017. Insomma, un fatterello fatto diventare una montagna”. “Resto raggelato – ha affermato in particolar modo l’avvocato Taormina – tra la realtà dei fatti e la sua ricostruzione e presentazione accusatoria. Siamo di fronte a una ipertrofia accusatoria che sprizza fuori da tutti i pori”.
Per i legali, la migliore difesa di Pecci è stata proprio la parte offesa. “Sono amici di famiglia – hanno sottolineato -, si conoscono da sempre e anche attualmente hanno ottimi rapporti. Il ristoratore non ha mai sporto denuncia né querela, né si è costituito parte civile al processo. Infatti, ha sempre detto di non essersi mai sentito intimidito o minacciato da Trovato e tantomeno da Pecci”.
“Trovato – proseguono i difensori – tra l’altro è sempre stato un tipo insospettabile. Un protagonista della movida viterbese. Mai nessuno ha pensato che potesse rivestire il ruolo di capo clan, Pecci su tutti. La caratura emersa nel processo a suo carico non era quella conosciuta a Viterbo, vale a dire di uomo normale”. Il boss è stato condannato per mafia in via definitiva a 12 anni e 9 mesi. È stato a capo di un sodalizio italo-albanese che tra il 2017 e il 2018 ha messo a ferro e fuoco il capoluogo tra incendi, teste mozzate di animali e altri atti intimidatori.
“Trovato è una piattola – affermano Taormina e Barili -. Si insinua nella buona società, ha rapporti di una certa eleganza e alla fine si “attacca” alle persone per trarne vantaggi personali o per commettere reati. E così farà anche quando viene a sapere della vicenda Pecci-clienti: si infila nella storia e se ne approfitta per arrivare, tramite Pecci, a Piero Camilli e per dare una lezione al ristoratore che aveva mancato di rispetto a un mafioso. Ossia a lui, mandandolo a quel paese”.
“Trovato – concludono gli avvocati – ha fatto tutto da solo. Quando con Pecci viene intercettato in auto e dice di voler dare una lezione al ristoratore picchiandolo e mandandolo in ospedale, Pecci non raccoglie l’invito e risponde: ‘Dai, poveraccio’. Un’espressione che può significare ‘Non farlo'”.
Taormina e Barili hanno chiesto l’assoluzione perché il fatto non sussiste, con Taormina che sul finale dell’arringa ha fatto sapere di non credere alla sentenza della Cassazione sul filone principale del processo. “Ho molti dubbi, in generale, sull’esistenza di una mafia viterbese. Non si è mai vista una mafia che dopo un’operazione sparisce subito, definitivamente”.