L’articolo di Federico Meli per la rubrica “Il mondo dei giovani d’oggi”
VITERBO – Nelle scuole di oggi, molti studenti vengono etichettati come “indisciplinati”, “svogliati” o persino “problematici”. Eppure, dietro ai loro comportamenti apparentemente ribelli si nasconde spesso qualcosa di molto più profondo: un bisogno di esprimere energie in eccesso o, al contrario, un dolore silenzioso che non trova spazio per essere ascoltato.
Comportamenti difficili: una richiesta d’aiuto travestita
Un ragazzo che si agita in classe, che sfida le regole o che si chiude nel silenzio non è un ragazzo “cattivo”. È un ragazzo che sta comunicando nel modo in cui può. Alcuni hanno semplicemente bisogno di muoversi, di sfogare energia per poter poi concentrarsi. Altri, invece, hanno dentro un disagio più profondo: problemi familiari, ansia, insicurezze, traumi. E quando nessuno insegna loro a dare un nome a queste emozioni, le esprimono come possono: con l’irrequietezza, con il rifiuto dell’autorità, con la chiusura.
Quando il “bad boy” diventa un’identità
Uno dei rischi più grandi di questo sistema di etichette è che, col tempo, il ragazzo stesso finisca per credere di essere davvero il “bad boy” o la “ragazza problematica”. Se un giovane si sente ripetere ogni giorno che è “difficile”, “un caso perso”, “uno che non cambierà mai”, finirà per impersonificare quel ruolo, anche quando gli porta altri problemi.
Questa immagine di sé diventa una corazza: meglio essere visti come “forti”, “ribelli” o “impossibili da domare” piuttosto che mostrare fragilità e rischiare di essere feriti ancora di più. Il problema è che questa maschera si rafforza con il tempo, fino a diventare una vera e propria identità da cui è difficile uscire. Anche quando il ragazzo soffre per questa etichetta, continua ad alimentarla perché è l’unico modo in cui è stato riconosciuto.
Imparare a riconoscere e gestire le emozioni
La scuola dovrebbe essere anche un luogo di educazione emotiva. I ragazzi devono imparare a riconoscere ciò che provano, a dare un nome alle emozioni e a incanalarle in modi sani. Solo così potranno evitare che la rabbia esploda in atti di ribellione o che la tristezza si trasformi in isolamento.
Per fare questo, è fondamentale insegnare loro tecniche di gestione emotiva:
Il riconoscimento delle emozioni: sapere dire “mi sento arrabbiato”, “mi sento triste”, “mi sento frustrato” aiuta a prendere consapevolezza.
Tecniche di autocontrollo: imparare a respirare profondamente, prendersi una pausa prima di reagire, usare il movimento per scaricare tensione.
Comunicazione efficace: saper esprimere disagi e bisogni senza aggressività, in modo assertivo e rispettoso.
La comunicazione con gli adulti: quando i ragazzi devono essere i “grandi”
Un aspetto spesso trascurato è che non sempre gli adulti – genitori, insegnanti – hanno competenze emotive adeguate. Essere più grandi non significa necessariamente saper ascoltare, comprendere e gestire le emozioni in modo sano. Molti adulti, per limiti caratteriali o perché nessuno lo ha insegnato loro, rispondono ai ragazzi con durezza o chiusura, alimentando conflitti e incomprensioni.
Ecco perché è importante spiegare ai giovani che, in certe situazioni, dovranno essere loro quelli più maturi nella relazione. Questo non significa accettare ingiustizie o reprimere i propri bisogni, ma imparare a comunicare con intelligenza emotiva. Ad esempio:
Evitare lo scontro diretto: rispondere con calma invece che con rabbia può aiutare un adulto a rivedere la sua posizione.
Usare il dialogo, non la provocazione: invece di dire “Lei ce l’ha con me!”, provare con “Mi sembra di non essere capito, possiamo parlarne?”.
Non prendere sul personale le reazioni negative degli adulti: a volte un insegnante è nervoso per motivi suoi, un genitore ha difficoltà che non c’entrano con il figlio.
Educare anche adulti e insegnanti
Perché tutto questo funzioni, è essenziale formare anche gli insegnanti e i genitori. La scuola dovrebbe includere momenti di formazione sulla gestione emotiva, sia per i ragazzi che per gli adulti. Insegnanti più consapevoli saranno in grado di riconoscere i veri bisogni degli studenti, evitando di etichettarli come “difficili” e trovando strategie più efficaci per aiutarli.
Lo stesso vale per i genitori: un ragazzo che si sente accolto e capito in famiglia avrà meno bisogno di esprimere il suo disagio in modi distruttivi a scuola.
Conclusione
Un ragazzo che si comporta in modo problematico non è da punire, ma da comprendere. Educare alle emozioni non è solo un compito per gli studenti, ma per l’intera società. Se vogliamo scuole più serene e giovani più equilibrati, dobbiamo insegnare loro – e agli adulti – il valore dell’ascolto, della comunicazione efficace e della gestione consapevole delle emozioni. Solo così potremo trasformare il conflitto in crescita e la ribellione in dialogo.
E soprattutto, dobbiamo stare attenti alle etichette che diamo ai ragazzi: perché a forza di ripetere loro chi sono, potrebbero finire per crederci davvero.
Federico Meli