BUCAREST – L’adagio è di quelli già sentiti: le elezioni rubate, la voglia di rivalsa, la tirannide di Bruxelles e tutti quei luoghi comuni di cui è infarcita la campagna elettorale dei partiti populisti e/o di estrema destra. Tutti ingredienti ai quali il romeno George Simion ha aggiunto una spezia esotica in più: la promessa di ‘mettere la Romania al primo posto’, che sa di Maga quanto la salsa barbecue sulla grigliata del 4 luglio.
In effetti il favorito alle presidenziali che si celebreranno domenica in Romania si proclama sostenitore di Donald Trump e punta a trasformare le elezioni “rubate” dello scorso anno in una vittoria, incanalando la frustrazione latente per il colpo di spugna con cui la Corte Costituzionale ha annullato la vittoria di un altro leader di estrema destra, Calin Georgescu, e gli ha vietato di ricandidarsi.
Vantando un filo diretto con Washington e contando sul suo sostegno, Simion, leader del partito nazionalista AUR, è favorito al primo turno di un’elezione che in Romania è segnata più dalla stanchezza che dalla tensione della competizione. Tuttavia il Paese è a un bivio: il voto di domenica sarà il più importante dal crollo del comunismo.
Il presidente della Romania non ha molti poteri in ambito interno, ma ha una certa autorità in politica estera ed è una figura influente nel Paese. Ora, per la prima volta dal rovesciamento del dittatore Nicolae Ceausescu nel dicembre 1989, un estremista di destra è in testa alla corsa. Ma perché le elezioni sono così importanti? La Romania sta vivendo la guerra in Ucraina più direttamente di qualsiasi altro stato membro dell’Ue: non solo perché condivide con l’Ucraina il confine nazionale più lungo, ma anche perché i razzi sorvolano regolarmente il suo territorio, i droni Shahed si sono schiantati nel Delta del Danubio e deve affrontare frequenti provocazioni russe nel Mar Nero.
Alla luce di tutto ciò, una sola cosa è certa: indipendentemente dall’esito delle elezioni, la Romania si trova ad affrontare un futuro estremamente incerto e difficile. Sembra in parte casuale e in parte inevitabile che la lista dei candidati sia quella attuale. Quando lo scorso novembre Calin Georgescu vinse il primo turno delle elezioni presidenziali, il mondo vide avvicinarsi alla presidenza un esoterista, un teorico della cospirazione, un estremista di destra filo-russo e un apologeta del movimento fascista cristiano ortodosso della Guardia di Ferro, in auge negli anni tra le due guerre. Una delle ragioni principali della sua vittoria era stata l‘uso intelligente dei social, in particolare TikTok, in una società che si è ampiamente sganciata dai media tradizionali. Una ragione più profonda del suo successo è però da ricercare nella frustrazione della società per lo stato del Paese.
La democrazia in Romania è in gran parte dominata da cricche politiche clientelari che si dividono le risorse, controllano la magistratura e altre istituzioni statali e impediscono qualsiasi forma di governo responsabile, orientato al futuro e sostenibile. Tra questi, il Partito Socialdemocratico (PSD) post-comunista che, contrariamente a quanto suggerisce il nome, adotta generalmente posizioni nazionaliste e tradizionaliste. Poi c’è il Partito Nazionale Liberale (PNL), che non ha quasi nulla in comune con il liberalismo politico ed economico nella sua forma classica, e l’Alleanza Democratica degli Ungheresi in Romania (UDMR), degenerata in un partito filo-Viktor Orban. Questi tre partiti governano il Paese in diverse configurazioni da diverso tempo e hanno persino formato una coalizione tripartitica dopo le elezioni parlamentari dello scorso dicembre.
Il favorito del momento è George Simion, 38 anni, leader della formazione nazionalista Alleanza per l’Unione dei Romeni (Aur). I sondaggi – storicamente inaffidabili nel contesto romeno – lo collocano tra il 30% e il 35% delle intenzioni di voto. Il suo messaggio populista, contrario all’establishment e critico nei confronti dell’Unione europea e dell’Ucraina, sembra raccogliere consenso in vaste aree del Paese, specie tra i giovani e nelle regioni periferiche. Simion ha dichiarato che, se eletto, bloccherà gli aiuti militari a Kyiv e ha promesso un incarico istituzionale a Georgescu. “Voglio soprattutto che il mio contributo alla Romania sia il ripristino della democrazia. Oggi viviamo in una democrazia più che fragile ed è questo che mi preoccupa più di ogni altra cosa”, aveva dichiarato Simion.
Pur negando simpatie per Mosca, è considerato da osservatori occidentali come una figura ambiguamente filorussa. La sua retorica ultraconservatrice, contraria all’aborto e ostile ai diritti Lgbtq+, ha attirato paragoni con i movimenti sovranisti europei più estremi. L’eventuale avanzata di Simion ha già sollevato forti timori in ambito Nato, poiché la Romania è destinata a diventare un pilastro strategico dell’Alleanza Atlantica sul fronte orientale. Entro il 2030 è previsto lo stazionamento di oltre 10.000 soldati nella nuova base di Mihail Kogalniceanu, sul Mar Nero – la più grande in Europa. Ma proprio in quell’area, Georgescu ha ottenuto ampi consensi lo scorso anno, confermando la penetrazione del voto anti-Nato anche in territori chiave per la difesa occidentale.
Alle spalle di Simion, si profila una battaglia a tre per l’accesso al ballottaggio: Crin Antonescu, sostenuto dalla coalizione di governo e fortemente europeista, è accreditato tra il 20% e il 23%. È considerato il volto dell’establishment, fattore che potrebbe sia aiutarlo – grazie a una macchina elettorale organizzata – sia danneggiarlo, in un contesto dominato dalla disillusione. Nicusor Dan, sindaco di Bucarest ed ex fondatore del partito riformista Usr, corre da indipendente con un profilo da riformista tecnico e paladino della legalità. I sondaggi lo posizionano tra il 17% e il 21%. Recenti accuse da parte di Elena Lasconi – che ha diffuso presunte foto compromettenti di Dan con un ex funzionario dell’intelligence – hanno inasprito la campagna, anche se Dan ha negato le immagini e ha annunciato una querela.
Victor Ponta, ex primo ministro socialdemocratico, ora candidato indipendente, oscilla tra l’8% e l’11%. Pur avendo un nome noto e una base elettorale residua, paga la percezione di essere parte del vecchio sistema politico. Appare in difficoltà Elena Lasconi, sindaca riformista e sorpresa del voto annullato di dicembre, che oggi non gode più del sostegno ufficiale del suo partito. La sua quota di consensi, secondo le rilevazioni, sarebbe tra il 5% e il 7%. Ha cercato di rilanciarsi come anti-establishment di sinistra, ma la frammentazione del campo centrista rischia di relegarla ai margini.