I dati ufficiali sull’affluenza alle ore 18 confermano le previsioni più fosche: solo poco più del 15% degli aventi diritto si è recato alle urne per i referendum, segnando un potenziale record negativo di partecipazione.
Un dato che, salvo sorprese clamorose nelle ultime ore di voto, rende ormai quasi certo il mancato raggiungimento del quorum del 50%+1, necessario per la validità delle consultazioni.
Le urne sembrano deserte in molte aree del Paese, con alcune regioni che faticano addirittura a toccare la doppia cifra. Anche le grandi città, da sempre barometri della partecipazione civica, stanno registrando numeri estremamente bassi. Si profila dunque una delle pagine più deludenti della storia referendaria italiana.
Il disinteresse appare trasversale. I cittadini, forse poco informati o poco coinvolti dai temi in questione, hanno in larga parte deciso di disertare l’appuntamento. Le campagne referendarie – giudicate da molti analisti come tiepide o frammentarie – non sono riuscite ad accendere il dibattito pubblico né a mobilitare l’opinione pubblica.
Le ragioni di questa astensione di massa possono essere molteplici: dall’assenza di un fronte politico unitario capace di dare forza ai quesiti, alla crescente sfiducia nei confronti delle istituzioni, fino a un certo “effetto stanchezza” verso consultazioni percepite come distanti o inutili. Il risultato è un voto che rischia di essere ricordato più per ciò che non è stato – un’occasione di partecipazione – che per i suoi contenuti.
Se l’affluenza dovesse confermarsi così bassa anche alla chiusura dei seggi, si tratterebbe di un segnale allarmante sullo stato di salute della democrazia diretta in Italia. E aprirà inevitabilmente una riflessione seria sull’efficacia, la forma e il futuro stesso dello strumento referendario.