Viterbo vive una fase di isolamento piuttosto preoccupante da anni ormai che fa pendent con una non meno cupa depressione economica: eppure la cittadinanza e le istituzioni locali su tutto ciò preferiscono non indagare, indugiando in un campanilismo estremo autoassolutorio privo di autocritica. Sarebbe il caso che la città cominciasse a mettersi seriamente in discussione per cercare di crescere e ad ascoltare le voci dei “forestieri” residenti e dei turisti spesso molto insoddisfatti sulle condizioni di vita nella vetus urbs: abbiamo incontrato il prof. Domenico Gioffrè, insegnante al Buratti lo scorso anno scolastico che, alla fine di quest’ultimo, ha deciso di abbandonare Viterbo e di tornare al Sud (Messina) di cui è originario. Nell’intervista che segue ci chiarisce i tanti perchè di questa sua decisione.
Come trovò la città appena arrivato?
La storia che son solito raccontare, a tal proposito, è quella del mio arrivo a Viterbo, in un tardo pomeriggio di inizio dicembre. Mi vennero a prendere a Porta Fiorentina, dopo una coincidenza cancellata da Orte e un ulteriore ritardo di 75 minuti, due gentilissimi signori (romano, l’uno, pugliese l’altro) che da anni si occupano dell’accoglienza di pellegrini, studenti e lavoratori presso il Convento dei Cappuccini. Sbrigate le formalità del caso, mi diressi verso il centro città, guidato da una grande curiosità e ancor più grandi attese, alla ricerca di un qualsiasi punto di ritrovo, café, bar che fosse, dove bere, sgranocchiare qualcosa e conoscere della gente: a rifletterci oggi, non ero che alla ricerca di una qualcosa di estremamente, squisitamente normale. E fu così che, attraversata Porta della Verità e la piazza del comune, mi ritrovai in men che non si dica a Porta Faul, con bocca asciutta, gola secca e l’amara realizzazione che, in effetti, il ‘centro’ di Viterbo mi si era risolto, in una quindicina di minuti, in un desolante dedalo di saracinesche abbassate, porte chiuse e locali deserti. Erano le 21 di giovedì 6 dicembre 2024.
Come passava il tempo libero? Che idea si fece di città e abitanti?
Constatato che la città offra ben poco, la salvezza e la ricchezza di un territorio come quello della provincia viterbese sono senz’altro la sua natura e la sua storia. La posizione del capoluogo, come quella dei maggiori centri del circondario, è convenientemente strategica. Ciò, in linea di principio, favorirebbe un afflusso turistico cospicuo e costante. Ma chi viene ‘da fuori’, come chi scrive, trascorse le prime settimane, si rende conto della quasi totale assenza di infrastrutture qualitativamente e organicamente idonee a coprirne la vasta e articolatissima complessità. Non fanno testo i collegamenti ferroviari né le cosiddette ‘superstrade’ (nemmeno a Canicattì chi scrive fu in grado di rovinare così tanto le sospensioni). Il tempo libero, di conseguenza, si riduce, anche e soprattutto per gli stessi viterbesi, nella ripetizione circolare e alienante delle stesse, medesime esperienze (per oppositum, è rivelatore l’atteggiamento attorno alla pur così bella festa del 3 settembre, al limite dell’alienante e dell’ossessivo). Vuoi, dunque, per l’oggettiva difficoltà nello spostarsi da e per Viterbo, vuoi per tutto ciò che questo ha storicamente e indirettamente comportato, i suoi stessi cittadini appaiono saldamente convinti delle proprie completezza e superiorità, sintomatologia di una coscienza collettiva corriva e approssimativa del mondo esterno, costretta, connivente o non, al dittico ossimorico: Viterbo è bella – a Viterbo si vive bene.
Ebbe modo di inserirsi e di fare amicizie? Cosa poi le ha fatto scattare la voglia di andare via?
Un parallelismo – non troppo forzoso – si potrebbe instaurare tra la città, dal punto di vista dell’impianto urbanistico, e i suoi abitanti. La chiusura-diffidenza verso tutto ciò che sta al di là della cinta (e dei Cimini) si rivela in atteggiamenti scostanti e – sovente – poco cortesi. Altra grama rivelazione, che, seppur solo superficialmente osservabile nei primi giorni di permanenza in città, si palesa in ben più coerenti e assiomatiche forme nel lungo periodo, è la struttura cristallizzata/castizzata della società viterbese. Rare – o pressocché nulle – le occasioni di mobilità sociale come pure lo stesso ordito collettivo si presenta, all’occhio di chi vuol essere attento, avvilentemente pressato dall’arroganza degli uni e, parimenti, dall’ignoranza, deliberatamente insanabile, del ceto medio-basso. In tale cornice, tutto ciò che è, per natura, ‘forestiero’ rientra a malapena nei margini del legittimato e l’unica alternativa è andarsene o accettare, malgrado sui, il parossismo.
Cosa ricorderà di questa esperienza viterbese?
Una lezione di vita. Essendo per metà italiano ma provenendo, in realtà, dal mondo anglosassone, ho scoperto che l’Italia non è sempre e comunque ciò che solitamente caratterizza l’immaginario straniero. Esiste, che si voglia ammettere o no, anche la provincia – e non solo quella delle ‘rolling Tuscan hills’, ma anche quella, suo malgrado, negletta e arretrata. E, tuttavia, “ha una colpa più grande” chi continua a consegnare e a consegnarsi nelle mani di coloro i quali, dalla depressione di un popolo, traggono maggiore profitto. Il re è – indubbiamente – ancora una volta nudo: sta a al popolo alzare la testa, altrimenti è correità.