Gaza, la “prima fase” dell’accordo e la politica italiana che ha soffiato sul fuoco

Adesso come faranno Landini, la Cgil e i pro-pal rimasti “orfani” di argomenti utili per mettere a ferro e fuoco le città?

La notizia è arrivata nella notte tra l’8 e il 9 ottobre 2025: Israele e Hamas hanno accettato la prima fase di un accordo per fermare la guerra a Gaza.

Non è “pace” compiuta, ma un cessate il fuoco strutturato con misure immediate: rilascio di tutti gli ostaggi ancora vivi detenuti a Gaza (circa una ventina), ritiro delle forze israeliane su linee concordate dentro la Striscia e uno scambio di prigionieri su larga scala.

La mediazione è stata condotta con un ruolo centrale della Casa Bianca e il supporto di Egitto, Qatar e Turchia; i governi e l’ONU hanno accolto l’intesa con cauto ottimismo.

Le cifre variano a seconda delle fonti – segno che i dossier sono ancora in evoluzione – ma la cornice è chiara: ostaggi liberi “molto presto”, ritiro militare su assi prestabiliti, stop delle operazioni per finestre orarie e ingresso massiccio di aiuti, con la prospettiva di ricostruzione e passi successivi sul disarmo e la governance di Gaza.

Alcuni media indicano circa 1.700 detenuti palestinesi come parte dello scambio; altri parlano genericamente di “centinaia”. In ogni caso, siamo davanti al più significativo avanzamento dalla ripresa dei colloqui: l’“accordo sulla prima fase” è, per ammissione di tutti, il mattone iniziale su cui verificare la tenuta della tregua.

L’Italia, le piazze e il bersaglio politico

Mentre questa finestra si apriva, l’Italia ha vissuto mesi di mobilitazioni spesso tese: cortei, blocchi, scioperi. Il confronto si è fatto rovente tra il governo e l’opposizione sindacale e politica. Giorgia Meloni ha bollato (e i fatti le hanno dato ragione) diversi appuntamenti come proteste “che non aiutano Gaza e creano solo disagi”, attaccando scioperi e iniziative-simbolo (flotilla, cortei “a oltranza”).

Dall’altra parte, Landini e segmenti della sinistra hanno rivendicato la piazza come leva di pressione morale e politica ma in realtà hanno rovinato e devastato città.

Il livello dello scontro è salito fino alla denuncia contro la premier alla Corte penale internazionale, episodio che ha avvelenato ulteriormente il clima e trasformato il tema mediorientale in un clava per consumo interno.

A posteriori – con un’intesa sul tavolo – quella mossa appare più propagandistica che utile: non ha accorciato i tempi del negoziato, né reso più semplice la trattativa sui dossier concreti (ostaggi, corridoi, ritiro militare).

Una critica necessaria a Landini (e a chi ha alimentato il corto circuito)

Qui sta il punto politico: la diplomazia ha parlato mentre in Italia si è spesso preferito urlare. E a guidare quel volume è stato spesso il segretario della Cgil.

Rivendicare la libertà di manifestare è sacrosanto; trasformarla in un dispositivo permanente di delegittimazione del governo – qualunque cosa faccia – è un altro conto. La catena di proteste a “costo zero” per i promotori ma costo alto per cittadini e imprese non ha spostato di un millimetro i negoziati in Egitto, a Doha o a Washington; ha però polarizzato il dibattito italiano, piegandolo a una logica anti-Meloni più che pro-pace.

Tre responsabilità politiche, in sintesi:

  1. Confusione deliberata tra pace e piazza. La narrazione “se non scioperi, stai con la guerra” è stata un ricatto morale che ha semplificato un dossier estremamente tecnico: scambio ostaggi-prigionieri, linee di riposizionamento delle IDF, sequenze temporali del cessate il fuoco, verifiche e garanzie. Tutte materie che si risolvono ai tavoli di mediazione, non con i blocchi stradali.
  2. Personalizzazione contro la premier. L’ossessione di colpire Giorgia Meloni ha oscurato l’unico criterio serio: che cosa aiuta davvero a chiudere un’intesa? La denuncia alla CPI e certi slogan radicali hanno fornito ammunition retorica agli avversari, non leva diplomatica ai mediatori.
  3. Danni collaterali interni. Scioperi e blocchi hanno prodotto disservizi e costi (economici e sociali) senza un correlato beneficio misurabile sul terreno negoziale. Il risultato? Comunità più divisa, governo rafforzato nel ruolo di argine all’estremismo, e una parte dell’opinione pubblica che ha maturato un rigetto verso la “politica-megafono”.

Cosa insegna l’accordo (anche all’opposizione sociale)

Se la “prima fase” reggerà, entreremo in una fase nuova: verifica del cessate il fuoco, rilasci scaglionati, ricostruzione e – soprattutto – la trattativa sui nodi più difficili (armi, sicurezza, governance). È qui che un sindacato grande come la Cgil potrebbe fare la differenza: con proposte industriali per la filiera umanitaria italiana, formazione per missioni civili, partenariati con ONG e agenzie internazionali. Insomma, politica concreta invece che spettacolo permanente.

La conclusione è scomoda ma inevitabile: la piazza non ha fermato i missili; i dossier ben scritti sì. Oggi abbiamo un corridoio diplomatico aperto – fragile, ma reale – perché i mediatori hanno lavorato sui fatti: ostaggi, linee, tempi, scambi, garanzie. Chi ha “messo a ferro e fuoco” l’Italia per attaccare la premier ha confuso il palco con il dossier. A Landini e a chi lo ha seguito conviene prenderne atto: la politica che incide non è quella che incendia.