Un costo molto elevato l’anno per degli stipendi che vanno a persone la quale identità resta top secret
VITERBO – Bagarre in consiglio comunale sui 127mila euro destinati ogni anno allo staff della sindaca Chiara Frontini. Il consigliere della Lega Andrea Micci ha chiesto chiarimenti sulla composizione e sugli incarichi del personale assunto tramite articolo 90, ma né la consultazione della sezione Trasparenza del sito istituzionale né la risposta all’interrogazione presentata hanno fornito, a suo dire, informazioni sufficienti.
Micci ha contestato il mancato accesso ai nomi e ai compiti di chi lavora nello staff della prima cittadina: «Sono fondi pubblici, pagati dai viterbesi. Non capisco perché non si possa sapere come vengono spesi». Il leghista ha colto l’occasione anche per criticare la mole di affidamenti diretti effettuati dall’amministrazione Frontini, definendola «una quantità mai vista prima», laddove lo strumento del diretto – ha ricordato – dovrebbe essere limitato a esigenze urgenti o a professionalità molto specifiche.
La sindaca ha ribattuto sostenendo che la legge tutela la privacy dei collaboratori e non consente la pubblicazione dei nomi. Sui numerosi affidamenti diretti, inoltre, Frontini ha evidenziato che l’ampliamento delle soglie e le più ampie possibilità di ricorso allo strumento derivano dalle modifiche introdotte dal nuovo Codice degli appalti, voluto dal ministro Matteo Salvini. Una norma rivendicata dallo stesso Micci, che però insiste: «Non è una questione di obbligo, ma di opportunità. Si tratta di una scelta politica che non condivido».
Posizione confermata anche dalla segretaria generale Noemi Spagna Musso, che ha richiamato la normativa a tutela dei dati personali ribadendo l’impossibilità di rendere pubblici i nominativi. Micci, tuttavia, non si è detto convinto: a suo avviso, quando si tratta di incarichi pubblici pagati con denaro pubblico, la trasparenza dovrebbe prevalere.
A complicare ulteriormente il confronto è intervenuta, a fine seduta, la capogruppo di Fratelli d’Italia Laura Allegrini, che ha invocato una mediazione: «Serve un equilibrio tra privacy e diritto all’informazione. Nessuno vuole conoscere aspetti sensibili della vita privata dei collaboratori, ma nome, cognome e compenso sì: sono dati che devono poter essere accessibili». Anche dopo l’intervento di Allegrini, però, le posizioni sono rimaste distanti.

