La Direzione rifiuti continua a produrre atti illegittimi pur dopo essere stata sconfessata dai giudici. Quel filo “rosso” che lega Wanda D’Ercole a Flaminia Tosini
ROMA – Non si tratta più di una controversia tecnica tra operatori del settore rifiuti, né di una fisiologica divergenza interpretativa tra amministrazione e imprese.
Quello che emerge dalle sentenze del Consiglio di Stato sul sistema dei rifiuti nel Lazio è qualcosa di più grave: una gestione amministrativa ostinata, impermeabile ai richiami della giustizia, che continua a produrre atti illegittimi pur dopo essere stata sconfessata dai giudici.
Al centro di questo schema c’è la Regione Lazio, Direzione Rifiuti, e una linea di condotta che negli anni ha sistematicamente favorito alcuni impianti di mero trattamento meccanico (TM), anche quando questi risultavano tecnicamente inidonei secondo la normativa europea.
Il Consiglio di Stato ha demolito, con parole nette, uno dei pilastri su cui la Regione ha costruito la propria difesa: l’idea che un operatore non possa contestare autorizzazioni rilasciate in un ATO diverso dal proprio.
Un argomento utilizzato come scudo per sottrarre al vaglio giudiziario scelte discutibili. I giudici lo definiscono senza mezzi termini un errore.
SENTENZA_17_11«È infatti palese che l’appellante abbia interesse quale operatore di settore a contestare la idoneità dell’impianto della controinteressata», perché in caso di accoglimento «potrebbe beneficiare di maggiori flussi di frazione indifferenziata da trattare», provenienti anche dai Comuni dell’ATO di Roma, «interessato da notorie carenze impiantistiche» .
Questa affermazione ribalta anni di narrazione amministrativa. La carenza impiantistica di Roma, evocata dalla Regione solo quando fa comodo, diventa agli occhi del Consiglio di Stato la prova dell’interesse concreto e attuale dell’operatore penalizzato.
Non un’ipotesi astratta, ma una dinamica reale di mercato che l’amministrazione ha tentato di neutralizzare con una lettura distorta dei principi di prossimità e autosufficienza.
Ancora più rilevante è il chiarimento sul principio di prossimità, spesso utilizzato come clava retorica per giustificare qualsiasi scelta.
SENTENZA_RIDA_16_11Il Consiglio di Stato ricorda che la prossimità non è un valore assoluto, ma subordinato all’idoneità tecnica dell’impianto. Scrivono i giudici: «Il principio eurounitario di prossimità degli impianti di smaltimento al luogo di produzione dei rifiuti è evidentemente condizionato dalla idoneità dell’impianto al trattamento». E nel caso esaminato l’impianto favorito dalla Regione operava «in assenza di una sezione di stabilizzazione biologica, in contrasto con le BAT-C 2018», trattandosi di «impianto di mero trattamento meccanico (TM) e non di impianto di trattamento meccanico-biologico (TMB)», dunque inidoneo al trattamento della frazione umida residua .
Qui il quadro diventa politicamente esplosivo. Perché la Regione Lazio non solo ha autorizzato questi impianti, ma ha continuato a inserirli nella pianificazione e nella regolazione tariffaria come se fossero equivalenti agli impianti TMB, ignorando le migliori tecniche disponibili e la gerarchia europea dei rifiuti. Una scelta che produce effetti distorsivi: meno trattamento biologico, più discarica, più costi ambientali.
Il Consiglio di Stato chiarisce anche le conseguenze concrete di queste illegittimità. Se le doglianze fossero state accolte, «l’impianto della controinteressata non avrebbe potuto continuare a ricevere conferimenti», costringendo i Comuni dell’ATO di Roma a rivolgersi ad impianti autorizzati e idonei negli ATO limitrofi. In quel caso, l’operatore penalizzato «avrebbe tratto un potenziale vantaggio competitivo ed economico», del tutto legittimo, «sicché era certamente titolare di un interesse concreto ed attuale all’annullamento degli atti impugnati» .
SENTENZA_RIDA15__11Altro che interesse ipotetico: la Regione ha inciso direttamente sugli equilibri di mercato scegliendo chi poteva operare e chi no, prescindendo dai requisiti tecnici. Una violazione dei principi di imparzialità e buon andamento che assume contorni ancora più gravi sul fronte delle delibere tariffarie.
Emblematica è la vicenda della DGR 290/2022, con cui la Regione ha individuato gli “impianti minimi” del ciclo dei rifiuti, includendo anche gli impianti TM. Il Consiglio di Stato ha accolto l’appello di RIDA riconoscendo che quella delibera era automaticamente decaduta a seguito dell’annullamento della delibera ARERA 363/2021, che ne costituiva il presupposto. Un principio elementare di diritto amministrativo: venuto meno l’atto presupposto, cade anche quello conseguenziale. Simul stabunt simul cadent (Insieme staranno oppure insieme cadranno). Eppure la Regione ha difeso quell’atto fino all’ultimo, nonostante fosse già privo di fondamento giuridico .
Il punto politico-amministrativo è tutto qui: quante decisioni sono state assunte, quante tariffe applicate, quanti flussi di rifiuti indirizzati sulla base di atti che oggi i giudici dicono non dovevano neppure esistere? E soprattutto: perché la Direzione Rifiuti continua a muoversi lungo lo stesso solco, cercando nuovi artifici regolatori per salvare un modello già bocciato?
Il Consiglio di Stato ha fatto chiarezza. Ha ristabilito gerarchie, principi e confini del potere amministrativo. Ora la palla passa alla Regione Lazio. Continuare a ignorare queste sentenze significherebbe trasformare l’errore in metodo e l’illegittimità in sistema. E a quel punto non si parlerebbe più solo di rifiuti, ma di responsabilità istituzionale.

