Bucarest – In Romania si chiude la vicenda Radulescu (mitragliera) vittima della giustizia come Salvini

Costruite false prove e formulate accuse infondate che gli hanno distrutto la carriera politica e per 9 anni ha subito un processo che non doveva neanche iniziare. Catalin Marian Radulescu vince la sua seconda rivoluzione. Quando la giustizia diventa un’arma politica: il caso romeno che si è chiuso con un’assoluzione piena

BUCAREST (ROMANIA) – Non è solo in Italia che la magistratura, in alcuni casi, è stata accusata di essere utilizzata come strumento di lotta politica. Anche in Romania, negli anni dei cosiddetti “protocolli” tra servizi segreti e procura, si sono verificati episodi in cui indagini giudiziarie si sono rivelate, a posteriori, costruzioni fragili o addirittura infondate, con l’obiettivo di colpire avversari politici scomodi.

Uno di questi casi si è concluso il 16 dicembre 2025 con una sentenza di assoluzione piena: “il fatto non sussiste”.

Il verdetto della Corte d’Appello di Bucarest

Con la sentenza penale n. 178/16.12.2025 (caso n. 8133/2/2021), la giudice Ramona Feurdean della Corte d’Appello di Bucarest ha assolto l’ex deputato socialdemocratico (PSD) Cătălin Marian Rădulescu da tutte le accuse.

Il tribunale ha stabilito che non esiste alcun fatto penalmente rilevante in relazione alle contestazioni di:

  • false dichiarazioni sulla partecipazione alla Rivoluzione del dicembre 1989;
  • presunta complicità in abuso d’ufficio per l’ottenimento di un certificato di “rivoluzionario”.

Un procedimento durato quasi nove anni, segnato da rinvii e ritardi anomali, che si è chiuso con una formula che in Italia equivale a una piena assoluzione nel merito.

Un’inchiesta che non doveva nemmeno nascere

Il caso era stato istruito dalla DNA, la Direzione Nazionale Anticorruzione romena, un organismo pensato per combattere la grande corruzione. Eppure le accuse riguardavano fatti amministrativi e dichiarati di scarso rilievo penale, che difficilmente giustificavano l’intervento di una procura “speciale”.

Secondo la sentenza, mancava qualsiasi prova concreta. Anzi, durante il processo lo stesso pubblico ministero d’udienza aveva chiesto di dichiarare la prescrizione dei reati, ammettendo implicitamente la debolezza dell’impianto accusatorio. La difesa, però, ha insistito per una decisione nel merito, ottenendo l’assoluzione piena.

Il ruolo del procuratore e il possibile conflitto d’interessi

L’inchiesta era stata condotta dal procuratore Mihai Prună, fratello dell’ex ministra della Giustizia Raluca Prună, figura di spicco dell’area liberal-progressista romena, vicina ai movimenti #rezist e a ONG finanziate da fondazioni internazionali. Quell’area progressista paragonabile ad AVS e PD in Italia.

Un dettaglio non secondario: Cătălin Rădulescu era uno dei più duri critici politici della ministra Prună, che aveva accusato pubblicamente di violare il principio di presunzione di innocenza e di aver delegittimato la magistratura. Ne aveva chiesto le dimissioni e l’aveva denunciata in Parlamento.

Nonostante questa evidente inimicizia politica, il procuratore non si è mai astenuto dal trattare il caso. Un elemento che, pur non formalmente sollevato dalla difesa per scelta strategica, getta un’ombra pesante sull’imparzialità dell’indagine.

Un bersaglio politico “da eliminare”

Rădulescu non era un parlamentare qualsiasi. Medico, laureato a Timișoara prima della caduta del regime comunista, era stato:

  • protagonista riconosciuto della Rivoluzione del 1989;
  • leader del gruppo parlamentare PSD sui temi della giustizia;
  • promotore della legge che istituì la SIIJ, la procura incaricata di indagare sugli abusi dei magistrati, compresi quelli della DNA.

Una figura scomoda, soprattutto negli anni in cui la DNA, guidata da Laura Codruța Kövesi, era accusata di costruire dossier politici con l’appoggio dei servizi segreti.

Nove anni di distruzione personale e politica

Nonostante decine di testimonianze a favore — compresi importanti leader della Rivoluzione del 1989 — il procuratore ha ignorato sistematicamente gli elementi difensivi, liquidandoli come “dubbi”, mentre riteneva credibili solo quelli utili all’accusa.

Il risultato è stato devastante:

  • carriera politica distrutta;
  • beni sequestrati per anni;
  • reputazione pubblica annientata;
  • conseguenze familiari drammatiche, tra lutti e malattie.

“Un caso politico mascherato da processo penale”

Intervistato dopo la sentenza, Rădulescu ha parlato senza mezzi termini di “un processo politico rovesciato”, in cui l’obiettivo non era accertare la verità ma colpire una persona.

Ora annuncia azioni legali contro i responsabili e chiede che chi ha costruito il caso risponda professionalmente e disciplinarmente.

Una lezione anche per l’Italia

Il caso Rădulescu dimostra che l’uso politico della giustizia non è un’esclusiva italiana. In Romania, come altrove, la lotta alla corruzione è stata talvolta trasformata in una clava contro avversari politici, salvo poi vedere i tribunali smontare tutto dopo anni di danni irreversibili. La giustizia lenta può assolvere, ma spesso non restituisce ciò che è stato distrutto.

Il parallelismo con l’Italia: il caso Salvini

Questo episodio romeno assume un significato particolare se letto alla luce di quanto accaduto recentemente anche in Italia con il processo a Matteo Salvini per la vicenda Open Arms, conclusosi con l’assoluzione perché “il fatto non sussiste”. Una formula che, ancora una volta, certifica come un procedimento penale possa rivelarsi infondato dopo anni di esposizione mediatica, delegittimazione politica e logoramento personale.

Al di là delle posizioni politiche e delle opinioni sul merito delle scelte compiute dall’allora ministro dell’Interno, il punto centrale è un altro: la giustizia penale non può diventare il terreno su cui si combattono battaglie politiche che dovrebbero essere risolte nelle urne. Anche nel caso Salvini, il processo ha inciso profondamente sull’agenda politica, sull’immagine pubblica e sul dibattito democratico del Paese, prima ancora che arrivasse una sentenza definitiva.

Il parallelo con la vicenda romena di Cătălin Marian Rădulescu è evidente: l’assoluzione arriva, ma arriva tardi, quando il danno politico, umano e reputazionale è già stato prodotto. In entrambi i casi, l’uso estensivo e mediaticamente aggressivo dello strumento giudiziario ha funzionato come una sanzione anticipata, indipendente dall’esito processuale.

Una questione europea, non nazionale

Romania e Italia, pur con sistemi giudiziari diversi, mostrano una fragilità comune: quando la magistratura viene percepita — a torto o a ragione — come parte del conflitto politico, la fiducia dei cittadini nello Stato di diritto si indebolisce. E questo vale indipendentemente dal colore politico dei protagonisti.

Il caso Rădulescu e il caso Salvini pongono la stessa domanda di fondo:
è accettabile che un leader politico venga “processato” per anni sui media e nella vita pubblica, per poi essere assolto nel silenzio generale?

Finché la risposta continuerà a essere elusa, il rischio è che la giustizia penale venga vista non come garanzia di equità, ma come uno strumento di lotta politica mascherato da legalità. Una deriva che nessuna democrazia europea può permettersi.