«La Cina non è d’accordo con la decisione e non la accetta». Venti di guerra commerciale tra Unione Europea e Pechino, dopo che Bruxelles ha reso definitivi i dazi aggiuntivi sulle importazioni di veicoli elettrici cinesi, ufficialmente in vigore da giovedì 31 ottobre.
Nel dettaglio, i nuovi dazi si attestano al 17% per il gigante del settore Byd, al 18,8% per Geely e al 35,3% per Saic. Per gli altri gruppi che hanno collaborato all’indagine antitrust la sovrattassa all’import è del 20,7%, percentuale che sale invece al 35,3% per tutte le aziende meno collaborative.
Complessivamente, sommando l’obolo del 10% già in vigore, le tariffe raggiungeranno la quota del 45% e, una volta entrate in vigore, dureranno cinque anni. Xi Jinping prepara ora le ritorsioni. Il ministero del Commercio cinese ha garantito che «adotterà tutte le misure necessarie per proteggere con determinazione i diritti legittimi e gli interessi delle aziende cinesi». La prima mossa è già stata fatta, con la presentazione di un’istanza al meccanismo per la soluzione delle controversie dell’Organizzazione mondiale del commercio. Proteste sono arrivate anche dalla Camera di commercio cinese presso l’UE, che si è detta profondamente delusa dalla misura protezionista e arbitraria di Bruxelles. A parole, Pechino non chiude a nuovi negoziati per giungere a un compromesso.
«Speriamo l’Ue adotti un atteggiamento costruttivo, lavorando con la Cina per arrivare rapidamente a una soluzione accettabile per entrambe le parti e per evitare un’escalation delle frizioni», ha dichiarato il portavoce del ministero del Commercio.
Intanto, il colosso asiatico affila le sue armi per rispondere all’UE. Dal punto di vista retorico, si sostiene che i dazi si riveleranno un boomerang. «È improbabile che queste tariffe rafforzino la resilienza del settore manifatturiero dei veicoli elettrici dell’Ue, stimolino l’innovazione o creino occupazione nel settore», si legge in una nota della Camera di Commercio cinese presso l’UE. «Al contrario, ostacolano la collaborazione e il progresso».
Sul fronte delle sanzioni commerciali, è prevedibile che Pechino farà nuovi annunci su una serie di indagini antidumping avviate su alcuni settori europei. Prima l’avvio dell’indagine anti sussidi sulla carne di maiale europea, che colpisce soprattutto la Spagna, poi quella sui prodotti lattiero-caseari. Il valore combinato delle merci interessate da eventuali dazi dovrebbe comunque essere inferiore ai circa 13,5 miliardi di dollari di export di batterie di veicoli elettrici da parte della Cina verso l’UE. Nelle scorse settimane, il governo cinese ha reso nota una riunione con l’industria automobilistica nazionale. All’ordine del giorno, l’innalzamento delle tariffe dal 15 al 25% per le importazioni di veicoli europei a grossa cilindrata. Un problema per molti, ma soprattutto per la Germania, visto che circa il 30% delle vendite delle sue case automobilistiche dipende ancora dal mercato cinese.
Il tutto avviene proprio mentre Volkswagen sottolinea «l’urgente necessità» di procedere a significative chiusure di impianti e tagli di posti di lavoro dopo che la più grande casa automobilistica europea ha registrato un calo del 64% dell’utile netto trimestrale a causa del crollo delle vendite in Cina. Tariffe aggiuntive avrebbero un impatto ancora più dirompente. Non a caso, il governo tedesco ha fatto sapere che Berlino si è più volte detta contraria ai dazi aggiuntivi e in una dichiarazione ufficiale del 29 ottobre sostiene i negoziati in corso tra l’UE e la Cina e spera in una soluzione diplomatica per mitigare le tensioni commerciali. Colpita dalle ritorsioni anche la Slovacchia, che proverà a ottenere qualche garanzia durante la visita del premier Robert Fico, a Pechino dal 31 ottobre al 5 novembre.
Attenzione poi agli investimenti. Secondo Bloomberg, il governo cinese avrebbe chiesto alle case automobilistiche di congelare i progetti nei Paesi europei. Scenario che impatta anche sull’Italia, che pareva vicina a raggiungere un accordo per l’apertura di uno stabilimento di veicoli elettrici Dongfeng.
Sullo sfondo, il dossier che riguarda le materie prime cruciali per l’industria tecnologica verde verde. Il 1° ottobre è peraltro entrato in vigore un pacchetto di norme del governo cinese sulle terre rare, che le pone ormai indissolubilmente sotto la gestione statale e le lega al concetto di «sicurezza nazionale». Non vi è certezza di restrizioni alle esportazioni, ma è un segnale difficile da trascurare, visto che attualmente Pechino produce circa il 60% dei metalli delle terre rare del mondo e circa il 90% di quelle raffinate presenti sul mercato. Già negli scorsi mesi, sono state introdotte restrizioni all’export di gallio, germanio e grafite, cruciali per la produzione (tra le altre cose) di microchip e batterie.