Trentasei indagati (tutti i nomi) e inchieste parallele che sono solamente all’inizio della caduta del sindaco di Ceccano. Dal giro d’affari ai soldi da nascondere. Dalle bonifiche ambientali ai tentativi di depistaggio. Non si escludono sviluppi clamorosi
FROSINONE – L’elenco degli indagati nell’operazione denominata “The Good Lobby” che ha visto come artefici gli uomini della Procura Europa “imbeccata” dalla Dda di Roma sono trentasei e precisamente: Antonio Annunziata, Massimo Del Carmine, Gennaro Tramontano, Stefano Anniballi, Pierfranesco Anniballi, Roberto Caligiore, Frank Ruggiero, Camillo Ciotoli, Elena Papetti, Stefano Polsinelli, Diego Aureli, Cesare Gizzi, Mario Ardovini, Angelo Macciomei, Riccardo Del Brocco, Simona Tanzi, Matteo Capuani, Maria Grazia Cestra, Sabina Bonifazi, Vincenzo D’Onofrio, Selenia Boccia, Franca Maria Turchetta, Giulio Morelli, Alberto Roncone, Maurizio Pozzuoli, Antonio Puppo, Massimo Rinaldi, Danilo Rinaldi, Franco Marcoccia, Luigi Schiavo, Lucio Maione, Salvatore Guido, Patrizia Criscuolo, Ennio De Vellis, Christian De Vellis, Vincenzo Busca.
L’operazione “The Good Lobby”, coordinata dalla Procura Europea e sostenuta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, ha colpito il cosiddetto “clan dei ceccanesi” di Frosinone, una rete criminale radicata nel traffico illecito di rifiuti e in una serie di altre attività illecite strettamente connesse al riciclaggio di denaro e all’infiltrazione nel tessuto imprenditoriale locale.
L’indagine, originata dal procedimento penale n. 55318/19, ha visto l’iscrizione del caso nei registri della Procura della Repubblica e ha svelato una complessa struttura associativa dedita a una molteplicità di crimini economici.
Origini dell’Indagine e prime scoperte
Il cuore dell’attività criminale era costituito da un’organizzazione che utilizzava numerose società di copertura e uno schema articolato di falsi documenti contabili per mascherare i proventi illeciti come guadagni leciti.
Uno degli obiettivi principali dell’indagine era smantellare questo sistema che, operando attraverso falsi impianti di smaltimento dei rifiuti, si occupava della gestione illegale di enormi quantitativi di materiali, riversando nel mercato nero profitti ingenti.
L’organizzazione inizialmente gestiva il traffico illecito di rifiuti nell’impianto “Me.co.ri.s. s.r.l.”, situato a Frosinone. Tuttavia, un incendio sospetto, verificatosi il 23 giugno 2018 e ancora sotto indagine, ha distrutto l’impianto.
L’incidente ha spinto l’organizzazione a spostare le attività di smaltimento illegale in un nuovo impianto ad Aviano, in provincia di Pordenone, acquisito attraverso una delle società fittizie controllate dal clan, “Ital Green s.r.l.”.
Questo nuovo impianto è stato creato per mascherare l’effettivo volume e la natura dei rifiuti trattati, garantendo così il continuo profitto delle operazioni illecite e facilitando l’inserimento di denaro sporco nel circuito finanziario legale.
Tecniche di riciclaggio e professionalità coinvolte
Durante l’indagine, le intercettazioni eseguite sull’email info@italgreen.it (R.I.T. n. 1875/21) hanno rivelato la vastità e la complessità delle attività delittuose gestite dal gruppo. Si è scoperto che il traffico illecito di rifiuti rappresentava solo una delle attività dell’organizzazione. Attraverso una fitta rete di fatture false e società “cartiere”, queste operazioni finanziarie consentivano al clan di ripulire il denaro derivante da attività illecite, ridistribuendolo nel tessuto economico locale e in altri settori apparentemente leciti.
Per riciclare i proventi illegali, il gruppo si avvaleva della collaborazione di professionisti, inclusi esperti contabili e commercialisti, in grado di garantire l’apparente legalità delle transazioni finanziarie.
Tra questi spicca il nome di Massimo Del Carmine, un commercialista di origini campane, che risultava in stretti rapporti con Antonio Annunziata, figura chiave nell’organizzazione.
Del Carmine, grazie alle sue competenze tecniche e alla conoscenza delle dinamiche economico-finanziarie, era incaricato di orchestrare operazioni di riciclaggio attraverso investimenti fittizi, spesso utilizzando società vuote intestate a prestanomi o attive in settori diversi da quello dei rifiuti.
Queste società erano progettate per apparire come normali aziende, spesso legate a industrie legittime, e venivano utilizzate per reinvestire i capitali illeciti in attività commerciali. In molti casi, i profitti venivano trasferiti all’estero, in paesi come la Cina, per sfuggire al monitoraggio delle autorità italiane, attraverso un complesso sistema di false fatturazioni create ad hoc.
La presenza di Annunziata e il collegamento con gli Anniballi
Un altro aspetto rilevante emerso durante l’indagine riguarda l’influenza che Antonio Annunziata esercitava sul territorio frusinate. La sua presenza in Ciociaria era costante e strategica, spesso facilitata dal suo “braccio destro” Stefano Anniballi, figura ben nota nella provincia di Frosinone per avere, negli anni Ottanta e Novanta, gestito con la moglie un negozio di abbigliamento di lusso, ma che oggi viveva senza fonti di reddito dichiarate. Nonostante il negozio fosse chiuso da decenni e senza apparenti attività lavorative, Stefano Anniballi e il figlio Pierfrancesco conducevano uno stile di vita dispendioso, con frequenti spostamenti e proprietà di alto valore, insospettendo ulteriormente gli inquirenti.
I contatti tra Annunziata e gli Anniballi venivano gestiti in modo criptico, preferendo spesso l’uso di email piuttosto che il telefono cellulare, per evitare le intercettazioni delle autorità.
Gli incontri avvenivano principalmente in luoghi isolati, come il cavalcavia dell’autostrada A1 nei pressi dello svincolo di Ferentino, documentati dalle autorità mediante appostamenti e osservazione a distanza. Anche il linguaggio utilizzato dai tre durante le comunicazioni era ermetico, facendo riferimento a una “merce” non specificata, che gli Anniballi “ordinavano” ad Annunziata per quantità. Questo modus operandi, sommato ai profili sospetti dei soggetti coinvolti, ha consolidato l’ipotesi che le attività fossero di natura illegale.
Infiltrazione nel tessuto economico e accrescimento dei capitali
Il quadro generale delineato dall’indagine ha mostrato come il clan fosse riuscito a sfruttare la crisi economica che da anni affliggeva il territorio ciociaro, infiltrandosi nelle realtà imprenditoriali locali per espandere e consolidare il proprio potere. I legami con aziende locali e i sistemi di fatturazione falsificata hanno garantito all’organizzazione di introdurre ingenti quantità di denaro sporco nell’economia legale, aumentandone progressivamente il valore e l’influenza.
Questa capillare infiltrazione ha permesso all’organizzazione di estendere i propri affari in altri settori, dalle costruzioni all’import-export, acquisendo immobili e attività commerciali che sembravano del tutto legali ma che in realtà fungevano da “lavanderie” per il denaro di origine illecita. Investire in società apparentemente normali ha permesso al clan di legittimare i propri guadagni, aumentando la propria presenza nel tessuto sociale ed economico del frusinate e ampliando la propria rete di influenze.
Conclusione e Conseguenze dell’Indagine
L’operazione “The Good Lobby” ha avuto un impatto significativo nel territorio frusinate, portando alla luce una struttura criminale sofisticata e organizzata, capace di utilizzare meccanismi finanziari complessi per mascherare e riciclare profitti illeciti. Le autorità hanno effettuato numerosi sequestri di beni e documenti, colpendo duramente l’organizzazione e i suoi referenti.
L’indagine ha messo in evidenza la capacità di adattamento e la pericolosità di questi clan, che hanno saputo utilizzare strumenti apparentemente legali per finalità illecite, infiltrandosi nell’economia locale e nazionale. I risultati ottenuti rappresentano un passo importante per arginare la criminalità organizzata sul territorio, riducendo la sua capacità di riciclaggio e sottraendo risorse economiche all’organizzazione stessa, riducendo di conseguenza il suo potere e la sua influenza.
PARTE PRIMA – SEGUE