Una sentenza sembra destinata a far discutere. Secondo molti sarebbe l’ennesima conferma dell’erosione del ruolo dei docenti.
MILANO – In un clima scolastico già segnato da tensioni e mancanza di rispetto, arriva una sentenza che lascia basiti: uno studente minorenne, sospeso per 25 giorni, aveva rivolto al suo insegnante di educazione fisica una frase chiara e intimidatoria davanti ai compagni: «Appena finisce la scuola vengo a trovarti, non è una minaccia ma un avvertimento, per me le regole non valgono».
Eppure, nonostante la gravità delle parole e il contesto, la Corte di Cassazione ha deciso di annullare la condanna per resistenza a pubblico ufficiale, stabilendo che il ragazzo non mirava a impedire l’atto dell’insegnante – la sospensione era già stata disposta – ma semplicemente a esprimere il proprio dissenso. In altre parole, un tentativo di intimidazione reale viene trasformato in “protesta legittima” contro una punizione già inflitta.
Questa decisione apre un dibattito scomodo: qual è il valore di una figura come quella del docente, quando la legge sembra non proteggerlo neanche di fronte a minacce esplicite? Se uno studente può rivolgere frasi intimidatorie e vedere annullata la condanna, quale messaggio riceve l’intero ambiente scolastico?
La sentenza, se da un lato chiarisce la distinzione tecnica tra reato e rimostranza personale, dall’altro alimenta il sentimento che il rispetto verso chi insegna sia sempre più fragile. In un momento storico in cui il ruolo dei professori è già spesso sottovalutato, casi come questo rischiano di erodere ulteriormente autorità e autorevolezza in classe.
Di fronte a queste situazioni, appare urgente ripensare non solo le norme, ma la cultura del rispetto e della responsabilità, per evitare che le parole minacciose diventino solo un “atto di protesta” senza conseguenze concrete.

