Il pubblico ministero era finito nel mirino del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, nelle indagini relative alla morte di Marco Vannini
Chiesta l’archiviazione per Alessandra D’Amore, il pm che si occupò delle indagini sul caso Vannini. Era stato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, a richiedere un’azione disciplinare nei suoi confronti, secondo il quale le attività investigative condotte dalla pm, nei momenti successivi allo sparo erano state “superficiali”.
La pm non avrebbe “sottoposto a penetranti verifiche l’iniziale ipotesi basandosi esclusivamente sulle dichiarazioni dell’indagato e di soggetti legati a quest’ultimo da strettissimi vincoli di parentela” che in quei momenti “avevano fornito versioni discordanti”.
Secondo il ministro Bonafede, la pm D’Amore inoltre avrebbe “omesso di disporre l’immediato sequestro dell’abitazione dei Ciontoli, lasciandola nella piena disponibilità delle persone sottoposte a indagine”. Il mancato sequestro della villetta avrebbe impedito di “rilevare e preservare le tracce del reato non macroscopiche”, come sangue o dna.
Tra i rilievi del ministro compare anche il mancato interrogatorio di tutti i vicini di casa dei Ciontoli: la D’Amore “si è limitata a sommarie informazioni di un unico nucleo familiare”.
Per questo lo scorso 17 febbraio Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione, aveva deciso di ascoltare Alessandra D’Amore, assistita dal difensore e procuratore aggiunto di Roma, Stefano Pesci. Poi era stata la volta di Gianfranco Amendola, procuratore capo di Civitavecchia all’epoca, ed ora in pensione, convocato come persona informata sui fatti e pronto nell’interrogatorio a difendere l’operato del pm D’Amore. Così come pubblicamente a protezione del pubblico ministero si era esposto anche Andrea Vardaro, attualmente alla guida della Procura di Civitavecchia.
La richiesta di archiviazione verrà ora esaminata dalla sezione disciplinare del Csm che potrebbe mettere la parola fine alla vicenda e, di conseguenza, accendere di nuovo i riflettori sul ministro ultimamente nella bufera per il caso delle scarcerazioni dei boss.
Sul lato processuale però la partita è aperta, Il prossimo 8 luglio si tornerà in aula per l’appello-bis come sancito dalla Corte di Cassazione lo scorso 7 febbraio. Rischia 14 anni di carcere per omicidio volontario con dolo eventuale l’intera famiglia, ad esclusione della fidanzata del figlio, assolta dall’accusa di omissione di soccorso, presente in casa in via De Gasperi quando Marco venne ferito mortalmente. A cominciare da chi premette il grilletto, il sottoufficiale della Marina con un ruolo nei servizi segreti Antonio Ciontoli, ma la stessa pena rischia anche la moglie Maria Pezzillo e i figli, Martina e Federico. Diverse le falle investigative evidenziate in tutti questi anni dagli stessi Vannini. La villetta dell’omicidio non fu mai posta sotto sequestro. Non venne neanche adoperato il luminol dai carabinieri di Civitavecchia e Ladispoli, strumento utile per evidenziare la presenza o meno di tracce ematiche sulla scena del crimine, in questo caso il bagno. Inoltre i militari non sentirono nemmeno tutti i vicini dei Ciontoli.