Nel 2013 l’ex segretario diceva: “Sotto il milione e mezzo è una sconfitta per tutto il partito”. Ora tutta la dirigenza uscente rassicura: “Sarà una festa”, “Abbiamo già vinto perché gli altri partiti non le fanno”. Così si guarda alla Francia solo per Macron, senza vedere che dalle primarie è uscito anche Hamon, che ha portato i socialisti al disastro
ROMA – Si rassicurano: andrà tutto bene, sarà una festa, sarà un successo. Nel frattempo sistemano cuscini tutti intorno, perché nessuna caduta possa essere dolorosa. Il salto è troppo alto? Va bene, abbassiamo l’asticella. Il bersaglio è troppo lontano? Pace: che vuoi che sia, basta avvicinarsi di un passo. Un milione di votanti? Sarebbe bellissimo. Un milione e mezzo? Ma che regalo, che sarebbe. Per la quinta volta, oggi, il Partito Democratico ricorre alle elezioni primarie per scegliere da chi sarà guidato. Ma per la prima volta non saranno superati i due milioni di partecipanti. A prevederlo non sono i gufi né l’accozzaglia. Sono, con un sorriso da stregatto, il segretario uscente e il presidente uscente, Matteo Renzi e Matteo Orfini, cioè coloro che hanno gestito il partito fino a qui. Non solo non sarà superata quota dei due milioni, ma la cifra che gira (un milione e 7-800mila) viene venduta da Renzi come speranza, come regalo a chi nel Pd ancora resiste, anziché come uno spettro, un sintomo.
“Sotto il milione e mezzo una sconfitta per tutto il partito” aveva detto nel 2013. Per la prima volta le primarie rischiano, insomma, di non segnare un punto di svolta, com’è sempre avvenuto – con fortune alterne – nelle occasioni precedenti. Per la prima volta, piuttosto, rischiano di diventare un autoinganno, come un viaggio nella sala degli specchi del luna park che sembra affollata e poi si è soli. Come un modo per dirsi che va tutto bene, che il peggio è passato, e poi però chissà se è davvero così.
Le primarie come il quadro di Dorian Gray: il partito si vede ancora giovane e energico, ma intanto ripiega su se stesso, dando le solite risposte alle solite domande, assicurando di aver capito la lezione.
Il risultato – dicono i sondaggi – appare scontato, ma chiunque vinca tra Renzi, Andrea Orlando e Michele Emiliano si troverà un partito non aperto a tutti come aveva promesso il segretario uscente, ma sempre più cerchia: i tesserati sono in lieve aumento, ma la comunità alla quale si riferisce il Pd crolla. Non solo nelle urne, per quello che si è potuto vedere con le elezioni amministrative che hanno seguito il 40 per cento delle Europee, ma perfino all’appuntamento che sembrava essere diventato – fino all’ultima volta – l’elisir di vita eterna. All’improvviso, invece, lo “strumento partecipativo” – come direbbe in una direzione del Nazareno – è diventato raggrinzito, loffio, inefficace.
C’è chi sfoglia l’albo e ragiona su com’è finita: Veltroni, schiantato un anno e mezzo dopo con le Regionali in Sardegna; Bersani, che “non vinse” nel 2013; Renzi, schiacciato sotto il sessanta per cento di no al referendum. E poi gli “scherzi” sul territorio, candidati vincenti alle primarie e perdenti alle elezioni vere (Paita in Liguria, Valente a Napoli, Casson a Venezia, Giachetti a Roma con le varie differenze) oppure sindaci non del Pd che alla fine sono diventati “stretti” (Doria a Genova). Fino al rischio del deperimento delle primarie e al ritorno del “primato della politica”, cioè che si ricominci a scegliere negli organismi del partito. In alcune città, per alcune Regioni, già è successo. A Livorno, per esempio: ancora si chiedono se sarebbe finita in modo diverso.
Meglio i vecchi riti, le assemblee, le alzate di mano, favorevoli, astenuti, giochi di corrente? Ai tempi dei voti online dei Cinquestelle, delle consultazioni di Podemos e della democrazia dal basso di Mélenchon, è un po’ complicato tornare indietro, agli anni Novanta. Mentre una parte del Pd si preoccupa di trasformare Macron in un mito greco, fino a emulare il suo tifo per l’Europa con il corteo blu durante il 25 aprile, credendo che sia quella la risposta al “populismo”, in Francia è iniziata una discussione sulle primarie, sia a destra che a sinistra, per capire se sia solo colpa di Fillon e Hamon se per la prima volta nella storia gollisti e socialisti sono rimasti fuori dal ballottaggio delle Presidenziali. Aveva cominciato a ragionarci prima ancora del primo turno delle presidenziali uno che ne sa qualcosa. Il presidente della Repubblica francese François Hollande – ormai trafitto dall’agonia e responsabile della più grave disfatta del suo partito da quando esiste – a un settimanale era arrivato a dire: “Non ci devono più essere delle primarie nei partiti di governo. Altrimenti non ci saranno più partiti di governo in questo paese. Sono diventati fragili e devono ritrovare legittimità da soli. Non scegliendo i loro candidati, stanno sul filo dell’acqua, come avrebbe detto il generale De Gaulle”. Hollande è arrivato all’Eliseo partendo dai gazebo, mentre nel 2017 alle primarie dei socialisti hanno partecipato in due milioni e Hamon ha preso solo quei due milioni.
Luoghi diversi, contesti diversi, soprattutto tempi diversi. Ma appunto: i tempi sono cambiati rispetto a cinque anni fa. Eppure, mentre Hollande si prepara a ritirarsi a vita privata per non danneggiare ancora la sua parte, nello stesso momento il segretario uscente del Partito democratico – dopo la sconfitta non proprio di un pelo al referendum – scrive ai suoi sostenitori: “Ignorano che un milione di persone che vanno a votare rappresentano una forza straordinaria, strepitosa. Che nel mondo è difficile trovare esperienze così belle. Ma noi raccogliamo la sfida, amici: facciamo di tutto perché si possa superare questa cifra”.
C’è chi prova alzare un dito: il motivo del calo di attenzione, della distrazione, è anche perché sono state primarie “un po’ veloci” come ha detto Beppe Sala, il sindaco di Milano, che con le primarie è entrato in politica: “E’ chiaro che le primarie stesse vanno un po’ ripensate”. Ma Orfini non vede il problema: “Se ci guardiamo intorno come gli altri partiti politici fanno scelte e selezionano le leadership, siamo di fronte a qualcosa di non paragonabile e quindi se votasse un milione di persone sarebbe comunque un milione in più degli altri”. A Maria Elena Boschi basta che il Pd “sia l’unico in Italia” a fare le primarie, cosa che è “motivo di orgoglio e di identità perché gli altri partiti non lo fanno”. Il tempo dirà se “orgoglio e identità” basteranno al nuovo segretario per avere un partito di nuovo giovane e forte e soprattutto per non soccombere davvero ai Cinquestelle alle Politiche. Ma tanto al favorito sembra interessare fino a un certo punto. Ha già adocchiato il salvagente e buttato a mare le vecchie promesse: “Se vinco io mai più le larghe intese”.