I rifugiati dalle guerre hanno dove dormire, di che mangiare, di che vivere. Questi 70 dipendenti pur di non perdere uno straccio di lavoro sottopagato e massacrante accettavano le condizioni dei titolari e firmavano il licenziamento in bianco ideato dal ragioniere Adriano Massella
TARQUINIA – In questa triste vicenda che ha portato sotto i riflettori nazionali un’azienda della nostra provincia l’unico spento, di riflettore, è quello dell’amministrazione comunale. Capiamo perfettamente il disagio del sindaco Pietro Mencarini che aveva candidato nella sua lista una delle quattro persone arrestate (Talita Volpini, vedi santino) ma anche dalla sua giunta non c’è stato un comunicato di solidarietà ai 70 lavoratori liberati, nel vero senso della parola, dalla Guardia di Finanza con il blitz di ieri mattina.
Sgomento in città dove alcuni dei personaggi, protagonisti della vicenda, sono molto conosciuti. Tra questi spicca, non v’è dubbio, il giovane ragioniere Adriano Massella, “mente” delle strategie e alchimie contabili e delle lettere ricatto che sono state rinvenute durante le perquisizioni nel suo ufficio.
Sarebbero state trovate nello studio del consulente del lavoro che, secondo gli, avrebbe “suggerito ai titolari dell’azienda le manovre fraudolente”.
Le fiamme gialle, per oltre un anno, hanno indagato su quello che definiscono “un sistema perverso e spregiudicato di sfruttamento di operai”.
Erano stati tutti obbligati a sottoscrivere le lettere di licenziamento in bianco che Massella aveva già predisposte in una cartellina rinvenuta in uno dei cassetti del suo ufficio.
“Gli operai – spiegano i finanzieri di Tarquinia – sono stati costretti ad accettare una retribuzione inferiore, di molto, a quella prevista dal contratto collettivo di lavoro per i metalmeccanici. Circa 3,90 euro all’ora, a fronte di un importo previsto di 8,28 euro. Inoltre effettuavano straordinari retribuiti 2 euro all’ora, invece che 12,42 euro. O, addirittura, senza essere pagati: i lavoratori erano obbligati a effettuare orario suppletivo gratis per riparare cattivi assemblaggi o per il mancato raggiungimento del numero minimo giornaliero dei pezzi previsti”.
C’è anche il sequestro di persona tra i reati che la procura di Civitavecchia contesta, a vario titolo, ai quattro tarquiniesi. Antonino Costa, 63 anni (nella foto principale il giorno del 62 compleanno con vicini i dipendenti), e Emanuele Pietro Costa, 32 anni, sono fini in carcere. Sono invece ai domiciliari le rispettive mogli: Paola Piselli di 54 anni e Talita Volpini, 34 anni candidata alle ultime elezioni comunali in una lista civica di centrodestra.
Al centro di tutto, un’azienda metalmeccanica situata presso la zona artigianale di Tarquinia che produce parti meccaniche per macchine da caffè e che operava nell’ambito di una sorta di ‘’holding familiare’’, ruotante attorno agli stessi soggetti della stessa famiglia con ditte e società: la ‘’Lolly’’ srl, l’impresa individuale Costa Metal di Pietro Emanuele Costa e l’impresa individuale di Antonino Costa. Secondo l’accusa il sistema era stato costruito per consentire ai titolari di risparmiare sui costi dei lavoratori fino a ravvisare anche il reato di truffa ai danni dell’Inps. L’azienda riceveva in conto lavorazione parti meccaniche da assemblare per poi restituirle al committente. Per fare questi lavori venivano impiegati operai perlopiù della zona di Tarquinia.
Per l’episodio più grave, il sequestro di persona, le Fiamme Gialle hanno ricostruito la vicenda di un’operaia che stava tornando dal lavoro quando le hanno offerto un passaggio in auto.
Invece di riaccompagnarla a casa, l’hanno portata in un casolare isolato in campagna. E qui l’hanno minacciata, per ore. Non doveva rivelare ai finanzieri quanto stava accadendo in azienda.
Nove anni accettando tutte le condizioni che i titolari, minacciandoli di ripercussioni e licenziamenti, gli imponevano.
Niente ferie, niente malattia retribuita, niente tredicesima.
Le indagini sono iniziate ad agosto 2016, e sono andate avanti per oltre un anno con appostamenti, esame di centinaia di documenti e con l’ascolto degli operai.
Tra i reati contestati a vario titolo dalla procura di Civitavecchia, c’è anche quello di estorsione, caporalato, sfruttamento del lavoro e minacce. Oltre a quello di truffa ai danni dell’Inps. “Ogni due, tre anni – spiegano i finanzieri – i lavoratori venivano licenziati da un’azienda e assunti da un’altra, comunque riconducibile e gestita dagli arrestati”.
Come è pensabile, si domandano in molti, che in Italia, patria dell’accoglienza dei rifugiati politici, possano accadere queste cose agli italiani?
La parola caporalato viene associata ai tanti immigrati di colore che nei campi della Puglia, della Campania e del Lazio venivano arruolati con pochi soldi e sfruttati per raccogliere i pomodori.
Oggi gli immigrati stanno bene. Hanno una casa, pasti caldi, vestiti nuovi, carte telefoniche e cellulari e tutto senza versare una goccia di sudore.
Gli italiani non hanno soldi per pagarsi le bollette, non possono permettersi di essere sfrattati e mandati in mezzo ad una strada. Devono comprare libri per mandare i figli a scuola, devono mangiare loro e tutti gli altri componenti della famiglia. Devono trovare i soldi per pagare le tasse altrimenti Equitalia gli blocca, con il fermo amministrativo, le vetture che gli permettono di andare al lavoro.
Quel lavoro sottopagato, fatto di umiliazioni e sacrifici. Se non fai questo, se non accetti questo vai sotto i ponti. Questo è il lavoro del futuro mentre gli altri, gli immigrati, li troveremo anche oggi nei pressi delle aree dove la wi-fi è libera. Quella è la loro occupazione principale.
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