Ritratto di Stefano Parisi, tra conti in rosso e affari discussi

Socialista. Burocrate. Poi manager privato. Vita e carriera dell’aspirante Governatore della Regione Lazio candidato del centrodestra

ROMA – Stefano Parisi non è il tipo che si scompone facilmente. Incassa le provocazioni con aplomb professionale. Se però provate a chiedergli della leggenda metropolitana che circola negli ambienti finanziari, ecco che arriva una risposta secca. «Tutte insinuazioni, falsità», taglia corto con un moto di stizza il candidato alla Regione Lazio per il centrodestra. Non è vero, quindi, che Silvio Berlusconi avrebbe garantito sostegno finanziario a Chili tv, l’azienda fondata e controllata da Parisi. E che questa sarebbe stata la carta decisiva per convincere il manager a scendere in politica per la seconda volta dopo la prima terribile batosta rimediata a Milano contro un perdente di nascita, Sala.

«Berlusconi non c’entra niente. E vale anche per il futuro», scandisce l’aspirante primo cittadino. Certo è che Chili tv, nata nel 2012 per vendere film e video in Rete, viaggia da sempre con i bilanci in rosso. A fine 2014, ultimi dati disponibili, le perdite avevano già assorbito due terzi dei 15 milioni investiti dai soci, e lo sbarco in Italia di un concorrente come Netflix crea nuove incognite.

Presto, quindi, potrebbero servire nuovi capitali e non è detto che tutti gli azionisti siano pronti ad aprire ancora il portafoglio. Parisi ha lasciato la carica di presidente, ma resta il socio principale di Chili con una quota del 48 per cento, insieme a due fondi (Antares e Negentropy) e una pattuglia di investitori, alcuni molto noti del mondo degli affari come Antonio Belloni, numero due di Lvmh, la multinazionale francese del lusso, e come Francesco Trapani, già grande azionista di Bulgari, poi ceduta proprio a Lvmh.

Vedremo se tutti faranno la loro parte oppure se arriverà un cavaliere bianco a salvare la situazione.

Parisi si chiama fuori: «La mia è una scelta di vita – assicura – resterò in consiglio comunale di Milano anche in caso di sconfitta». Aveva detto con toni trionfalistici. Oggi, evidentemente, ha cambiato o gli hanno fatto cambiare idea.

Il suo curriculum racconta di una carriera ricca di curve come una strada d’alta montagna, dai corridoi del potere romano fino al consiglio di amministrazione di una grande azienda come Fastweb.

Un primo della classe, insomma, con l’abilità mimetica di uno Zelig.

Socialista di sinistra nei primi anni Ottanta («lombardiano», dice), entra nell’ufficio studi della Cgil e poi, nel 1984, a soli 28 anni, arriva al ministero del Lavoro come capo della segreteria tecnica di Gianni De Michelis, che lo conferma nello stesso ruolo anche quando passa agli Esteri.

Nel 1992, al tramonto della prima Repubblica, Parisi si trova in una posizione quanto mai strategica: a Palazzo Chigi con Giuliano Amato, responsabile del dipartimento economico della presidenza del Consiglio. Nel 1993 tocca a Carlo Azeglio Ciampi, poi Berlusconi, Lamberto Dini e infine Romano Prodi: cambia il capo del governo, ma il giovane dirigente non perde il posto.

Cinque premier di fila, un record. Nasce in quegli anni l’Associazione amici di Mario Rossi. Scopo dichiarato: promuovere la riforma dello Stato in senso liberale. Il nome di Parisi compare tra i 18 firmatari del manifesto insieme al suo amico Maurizio Sacconi, ex socialista approdato a Forza Italia, e a Letizia Moratti, figura decisiva per le successive puntate della Parisi story. Il consigliere più fidato di Lady Moratti è Bruno Ermolli, consulente aziendale di lungo corso che lavora da sempre anche per Berlusconi.

Così, quando nel 1997 Forza Italia spedisce l’imprenditore Gabriele Albertini sulla poltrona di primo cittadino di Milano, è proprio Ermolli a pilotare la scelta di Parisi come direttore generale del Comune. È una novità assoluta: la figura del city manager nasce con la riforma della Pubblica Amministrazione firmata da Franco Bassanini proprio nel 1997. La storia si ripete. Ermolli infatti ha raccomandato anche Sala, anche lui direttore generale del comune di Milano dal 2009 a metà 2010. Il sindaco, all’epoca, era proprio Letizia Moratti, che adesso però sostiene Parisi.

Al fianco di Albertini, l’ex burocrate di Palazzo Chigi sfodera la grinta del manager. Proprio lui, l’ex socialista della Cgil, diventa la bestia nera dei sindacati, a cui impone una riforma di segno aziendalista della macchina comunale. In quegli anni, però, andò in scena anche una delle operazioni più controverse della storia recente della città. Nel 2000 Aem, l’ex municipalizzata dell’energia, strinse un’alleanza con e.Biscom, neonato operatore telefonico destinato tre anni dopo a trasformarsi in Fastweb. Grazie a quell’accordo, un gruppo privato otteneva l’accesso ai cavi in fibra già posati a spese del socio pubblico nel sottosuolo della città e si garantiva uguale privilegio anche per gli sviluppi futuri della rete. I termini dell’intesa furono molto criticati dall’opposizione di centrosinistra e anche da numerosi analisti finanziari.

Albertini era accusato di aver svenduto un bene dei cittadini favorendo un gruppo di investitori privati, ovvero il manager Silvio Scaglia e il finanziere Francesco Micheli, soci fondatori di e.Biscom. «Critiche infondate», risponde adesso Parisi.

«Grazie a quell’accordo – dice il candidato sindaco – Milano è diventata la città più cablata del mondo». Di certo gli azionisti privati sono riusciti a capitalizzare al massimo il sostegno fornito dal Comune. Scaglia e Micheli si sono ritirati da Fastweb, guadagnando in totale 1,5 miliardi nell’arco di sette anni. Anche l’Aem ha fatto marcia indietro. I profitti però si contano nell’ordine delle decine di milioni.

Parisi, nel frattempo, aveva già preso il volo. Nel 2000 lo troviamo alla direzione generale di Confindustria, ai tempi della presidenza di Antonio D’Amato. Tempo quattro anni, però, e l’ex city manager di Milano diventa amministratore delegato di Fastweb, proprio l’azienda che, secondo i critici, sarebbe stata favorita ai tempi della giunta Albertini. Imbarazzante. O no? Il diretto interessato taglia corto: «Nessun imbarazzo, perché nel mio precedente ruolo pubblico ho fatto sempre e soltanto gli interessi del Comune». Con Parisi alla guida, Fastweb continua a crescere e nel 2006 si aggiudica il contratto unico di fornitura per la Pubblica Amministrazione, un appalto da centinaia di milioni.

Risale a quei giorni il primo scontro tra i due candidati sindaci a Milano. Sala, all’epoca direttore generale di Telecom Italia, perse la gara. E di lì a poco anche il posto di lavoro. 

 

 

 

 

 

(fonti: espresso.it)