ROMA – Scrittore, polemista, commentatore, firma dei più importanti quotidiani italiani, dalla Stampa, dove ottenne il suo primo contratto giornalistico, nel 1961, al Giorno, dal Corriere della Sera a Repubblica (di cui è stato vicedirettore) al Messaggero, dall’Espresso a Epoca a Panorama, Giampaolo Pansa, morto a Roma all’età di 84 anni, ha raccontato con acume la società e la politica italiana, mettendo alla berlina i vizi della classe dirigente e soprattutto proponendo un punto di vista controcorrente, sempre in grado di stimolare il dibattito e la riflessione.
Da allora non ha fatto altro, altissimo, magro, il vocione caldo e imperioso: «Sono Pansa». Metodico, inarrestabile. Ogni mattina riforniva da carta vergine il suo quaderno a fogli mobili, che alla sera riponeva gonfi di appunti in un archivio in cui c’è il respiro di oltre mezzo secolo di Italia.
Ha lavorato alla Stampa diGiulio De Benedetti, al Giorno di Italo Pietra, di nuovo alla Stampa di Ronchey, poi al Corriere di Ottone, poi a Repubblica dagli anni 80, vicedirettore nel quotidiano di Scalfari e poi all’Espresso. Aveva studiato storia e l’ostinazione nel cercare dettagli e la verifica di ogni notizia gli veniva di lì.
Era figlio di un operaio di Casale, la mamma aveva un negozio di moda che lui ricordava come un mondo di chiacchiere e di incontri che gli hanno dato la curiosità della gente. Ha seguito i grandi fatti, ha fatto grandi inchieste, interviste che hanno pesato sulla storia italiana. A lui Enrico Berlinguer nel 1976 confidò di sentirsi più sicuro sotto l’«ombrello della Nato».
Sul Corriere di Ottone ha firmato la storica inchiesta sullo scandalo Lockheed con Gaetano Scardocchia, poi direttore della Stampa e del quale scrisse un commosso necrologio: «Era il migliore di tutti noi». Il suo giornalismo era fatto di grande scrittura e di ostinato lavoro sul campo. I 35 giorni della Fiat, la grande vertenza del settembre 1980, li ha passati sui marciapiedi di Mirafiori, le sue interviste ai capi, agli operai, ai dirigenti hanno scandito la storia di quella stagione.
Il racconto della politica e dei suoi leader, lo spettacolo dei congressi di partito, allora delle messe cantate con liturgie spettacolari che Pansa raccontava dalle tribune munito di un binocolino da teatro e riempiendo il suo quaderno con la penna stilografica. I suoi ritratti dei politici sono spietati, grotteschi nella rubrica il «Bestiario», inventata su Panarama di Claudio Rinaldi e poi traslocata sull’Espresso. Restano scolpite alcune definizioni. Il «parolaio rosso» per Fausto Bertinotti, i «dalemoni» per definire l’inciucio dell’accoppiata D’Alema-Berlusconi nella fallita impresa della Bicamerale.
Giampaolo Pansa è stato un giornalista totale, inutile cercare altre definizioni. È stato considerato un uomo di sinistra, poi di destra per i suoi libri di controstoria della Resistenza, inaugurati nel 2003 con Il sangue dei vinti. Ma Pansa non è stato né l’uno né l’altro, ha interpretato semmai con accanita perseveranza il rigore del mestiere con la passione civile di raccontare tutto quel che c’era da raccontare. Aveva rotto un tabù, rivelando la crudezza di un momento storico e superare gli inganni della memoria. È servito? Forse no. Ma scrivere era la sua vita e Giampaolo Pansa ha fatto per intero la sua parte.