Viterbo – Mammaggialla, un carcere al collasso, condizioni disumane, sovraffollamento e carenza di personale

Massimo, il ragazzo che ha tentato il suicidio, è solo l’ultimo dei tanti episodi che dovrebbero far riflettere le istituzioni

VITERBO – Qualche giorno fa è uscita la notizia nell’ennesimo tentativo di suicidio in cella da parte di un detenuto rinchiuso nel carcere viterbese Mammagialla. I racconti narrati all’esterno non sono mai come quelli di chi, quei momenti, li ha vissuti istante per istante.

Massimo, un omone di 120 chili tutto muscoli, con gravi problemi psichiatrici e con diagnosi che ne sconsigliano la dura detenzione in carcere, nonostante abbia una mogli e tre figli che lo stanno aspettando, cedendo alla depressione ha deciso di farla finita.

E’ vivo solo perché il suo compagno di cella, nonostante sia decisamente più piccolo, è riuscito a tenerlo sollevato per lunghi ed interminabili minuti prima che arrivassero in suo aiuto gli agenti della penitenziaria in servizio in quel momento.

Nel cuore della notte un tonfo è stato udito in tutto il reparto. Era lo sgabello dal quale si era lasciato andare Massimo.

Il compagno di cella impiega un po’ per capire cosa sta accadendo e resosi conto della tragedia in atto ha iniziato ad urlare. A quel punto tutti hanno cominciato a chiedere aiuto. Ad urlare, a fare casino, battere sulle porte blindate per richiamare l’attenzione delle guardie. Di notte gli agenti in servizio sono contati. Hanno impiegato qualche minuto prima di riuscire ad aprire quella porta. Sono stati aiutati dagli stessi detenuti perché non riuscivano a tagliare quella corda che stringeva il collo di Massimo.

Immaginate quanto possono essere lunghi dieci minuti per un uomo che cerca di tenere sollevato il corpo di una persona due volte più grande e pesante di lui. Le urla di quelli che inevitabilmente sono diventati amici. Isteria. Pianti. Terrore. La morte è sempre terribile quando passeggia e la vedi. La senti. Ovunque ci si trovi la morte rende deboli anche gli uomini più forti e duri.

Queste cose terribili, questa esperienza traumatica ce l’ha raccontata Jacopo che, dopo la messa in onda su Italia 1 della sua storia personale, è divenuto quasi il portavoce di chi non ha voce, di chi non ha la possibilità di far conoscere le sofferenze di chi vive in condizioni spesso disumane.

Chi vive tra queste mura ha commesso degli sbagli e ne sta pagando le conseguenze ma non per questo gli va tolta la voglia di vivere, di redimersi, di avere una seconda chances.

Jacopo ci racconta del suo amico Massimo. Della sua depressione, della mancanza di cure adeguate. Del fatto che, dopo tanti anni di detenzione, forse alleggerire la pena lo avrebbe aiutato sicuramente a superare i problemi che dopo un po’ diventano insormontabili.

Mammagialla è un carcere obsoleto. Lo dicono anche i sindacati della polizia penitenziaria. E’ sovraffollato. Ci sono tanti detenuti con pene minori che potrebbero tranquillamente continuare la detenzione in regimi meno coercitivi. Che senso ha tenere rinchiusi in carcere detenuti che devono scontare pene inferiori ai tre anni che ne hanno già scontati più della metà.

Anche i detenuti hanno il diritto di essere ascoltati. Di essere aiutati in un percorso serio, concreto, che possa riportarli in una società dove mancano da anni senza dover subire shock, traumi e trovare porte chiuse ovunque.

Ecco. Jacopo ci parla di questo. Della voglia di cambiare. Dopo tanti anni trascorsi in carcere la voglia di rivincita è tanta. In queste settimane, grazie alla trasmissione “Buoni o Cattivi”, ha ricevuto centinaia di lettere. Lettere di speranza. Sostegno. Di persone che hanno vissuto storie simili alla sua. Le canzoni che sta scrivendo e che sta musicando parlano di questo. Della vita di strada che ha portato più dolore che gioia nella sua vita.

Del loro essere stranieri in una prigione italiana. Gli italiani sono ormai una minoranza etnica ovunque. Che devono difendersi dalle insidie che quella convivenza comporta.

Il messaggio di Jacopo è questo e sta volando oltre le sbarre della sua cella. Non poter aiutare chi sta davvero male, tra l’indifferenza delle istituzioni, si trasforma in rabbia non più sfogata con gesti violenti ma con frasi scritte e canzoni di speranza. Siamo convinti che Jacopo riuscirà in questo suo percorso. In questa sua nuova vita. Giudici di sorveglianza che vedendosi passare centinaia di richieste, anche le più disparate, perdono il contatto umano con i detenuti che diventano meri numeri ai quali rispondere.  Noi daremo voce a Jacopo e a tutti quelli che da quelle mura cercano di urlare la loro rabbia, disagi, sofferenze nella speranza che qualcuno, in questo mondo così frenetico e alienante, possa fermarsi a riflette su questi pochi concetti, tutti fortemente condizionati dal dolore in tutte le sue più brutte sfaccettature.