Il pensiero debole e i poteri forti, l’outing e l’intimità, i libri e la televisione, la razionalità e la fede.
Se la vita dei filosofi è sempre fatta di contrapposizioni (e di contraddizioni, seppure piegate e aggiustate dalla sintesi), di bianchi che appaiono neri e di neri che sembrano bianchi, Gianni Vattimo (Gianteresio all’anagrafe di Torino, dove era nato il 4 gennaio 1936) può essere considerato l’involontario vessillifero di questa (a sua volta…) apparente contraddizione, laddove la filosofia è «amore del sapere», tensione, strenua fino all’ultimo respiro, verso la certezza.
Morto ieri a 87 anni, Vattimo è diventato, di nuovo, suo malgrado, un “personaggio”, risucchiato nel gorgo del gossip e dei colpi di gomito ammiccanti, spesso sotto la cintura. Per via, ovviamente, non del «pensiero debole» con i forti e forte con i deboli, ma della sua dichiarata omosessualità. Una volta disse, intervistato da Candida Morvillo sul Corriere: «Volevo diventare normale. Ma suo padre (di Gianna Recchi, ndr) non acconsentì alle nozze. Poi Julio, un ballerino peruviano, mi insegnò a conciliare sessualità e sentimento. Però, l’ulcera mi passò solo quando m’innamorai di Gianpiero Cavaglià. Il nostro è stato come un matrimonio».
Questo è uno stralcio del versante normale, quasi ovvio, della questione. Invece a conflagrare, fino a giungere in tribunale, è stato il legame con Simone Caminada, 38 anni. «Ricatti sentimentali», «Relazione tossica», «Dipendenza e sudditanza psicologica»: queste alcune parole contenute nella motivazione della sentenza che il 6 febbraio scorso ha condannato Caminada a due anni di reclusione per il reato di circonvenzione di incapace. Ma il professore ha prontamente ribattuto, in un’altra intervista: «Lui mi sta vicino e, se non ha cambiato idea quando miei finti amici l’hanno accusato, spero che continui il nostro rapporto come è sempre stato».
Il pensiero, ora, dopo le azioni.
Vattimo definì «debole» quello della postmodernità. Tuttavia «debole» non nel senso di inane, bensì nel senso di “leggero”, perché liberatosi, a partire da Nietzsche e da Heidegger, dal “peso” di numerosi presupposti fondanti della filosofia classica e della tradizione filosofica occidentale, a cominciare dal concetto di Essere. Del resto, ciò che sfugge, l’effimero, la caducità del vivere, caratterizzano la storia dell’umanità, e nella visione di Vattimo proprio il riconoscere e l’ammettere ciò costituisce la forza del «pensiero debole».
In breve, la postmodernità è diventata pop-modernità. E la filosofia è diventata più accogliente, amicale, inclusiva, diremmo oggi. Sono passati un bel po’ di anni, dalla messa a tema del «pensiero debole» con Vattimo e con Pier Aldo Rovatti, ma sembra ieri, e sicuramente sarà domani.
E la fede? Cristianesimo, sì, ma «secolarizzato», civile, persino civico. Un cristianesimo “debole”?
Non proprio, perché quello abbracciato da Vattimo è un cristianesimo cui non servono le istituzioni ecclesiastiche, al contrario, si basa sulla kénosis, sullo «svuotamento», l’«abbassamento», l’«indebolimento» della stessa idea di Dio. E, anche qui, come in filosofia, il non riconoscere l’«assoluto» comporta vantaggi nell’immanenza, come lo sfarinamento delle diversità sociali e culturali.
Entrato in Rai a seguito di un concorso nel ’54, e presto uscitone, durante la lunga carriera accademica Vattimo è stato autore di decine di studi teorici e di approfondimenti storici, ed è stato anche collaboratore di varie testate come La Stampa, l’Unità, il manifesto, il Fatto Quotidiano, il Clarín, El País, con editoriali e riflessioni critiche su vari temi di attualità, politica e cultura. Incappando a volte in scomode o imbarazzanti… pietre d’inciampo in cui l’emotività ha avuto la meglio sulla ragione. Ricordiamo la polemica, con relative bacchettate delle Comunità ebraiche, sulla Federal Reserve «di proprietà di Rothschild». E ricordiamo anche le prese di posizione contro Israele, ma non, a suo dire, tacciabili di antisemitismo, essendo di carattere geopolitico. Più triste, perché stizzita, acida, rancorosa, l’uscita a Radio Radicale quando nel 2009, dopo l’aggressione di Massimo Tartaglia a Silvio Berlusconi in Piazza Fontana a Milano, Vattimo commentò che chi vuol far del male non usa statuette, ma pistole. Questo sì, fu un pensiero debole senza virgolette.