ROMA – Si chiude con una netta assoluzione il contenzioso legale che ha visto contrapposti l’ex magistrato Piercamillo Davigo e il critico d’arte, oggi deputato, Vittorio Sgarbi. Al centro della vicenda, un articolo pubblicato nel marzo del 2017 sul quotidiano Il Resto del Carlino, nel quale Sgarbi accusava Davigo di “disgustoso cinismo” per alcune sue affermazioni in merito all’uso della custodia cautelare durante l’inchiesta Mani Pulite. Un attacco che il magistrato ritenne diffamatorio, decidendo di denunciarlo.
Dopo anni di processo, la Suprema Corte di Cassazione ha posto la parola fine: “il fatto non sussiste”. La critica di Sgarbi, pur aspra nei toni, rientra nei limiti del diritto di critica, ha stabilito la quinta sezione penale della Cassazione con sentenza n. 9818 del 2025, depositata a seguito dell’udienza del 2 dicembre 2024.
La vicenda: un articolo e una querela
Il fatto scatenante risale al 9 marzo 2017, quando Piercamillo Davigo, ex membro del pool Mani Pulite e allora consigliere del CSM, rilascia un’intervista televisiva nella quale afferma che l’utilizzo della custodia cautelare da parte della Procura di Milano, all’epoca, fu legittimo. Il giorno successivo, Sgarbi pubblica un articolo intitolato “Davigo e i detenuti dimenticati”, nel quale critica duramente quelle affermazioni, arrivando a scrivere:
“Ora con disgustoso cinismo si assume la responsabilità di quel crimine, non riconoscendo gli eccessi nell’uso della misura cautelare se non nelle scarcerazioni.”
Il riferimento al “crimine” era legato, secondo Sgarbi, alla vicenda del suicidio in carcere di Gabriele Cagliari, ex presidente ENI, avvenuto nel 1993 in pieno clima di Tangentopoli.
Davigo denuncia per diffamazione aggravata. Sgarbi viene però assolto in primo grado nel 2021 e la sentenza viene confermata in appello nel 2024.
La Cassazione: “Non si travalica il confine della critica”
La Corte di Cassazione ha confermato l’assoluzione, respingendo in toto il ricorso presentato dalla parte civile (Davigo). I giudici hanno evidenziato che la critica di Sgarbi, seppur aspra, trae origine da un fatto vero – le dichiarazioni pubbliche dello stesso Davigo – e si mantiene nei limiti della legittimità democratica:
“La critica, per essere legittima, deve prendere spunto da una notizia vera, connotarsi di pubblico interesse e non deve trascendere in un attacco personale.”
La Suprema Corte ha sottolineato inoltre che:
“Il punto cruciale… è quello della verità del fatto. La verità da cui si trae spunto per la critica, nel caso di specie, non è la vicenda giudiziaria relativa al suicidio dell’imprenditore Gabriele Cagliari… ma il cinismo di un’idea.”
Sgarbi non attribuisce a Davigo la gestione del caso Cagliari, né lo accusa direttamente della sua tragica fine, ma si limita a una valutazione (dura) del pensiero espresso dal magistrato.
Il valore della libertà di critica, anche contro i magistrati
Particolarmente rilevante nella sentenza è il richiamo alla giurisprudenza europea sul diritto di critica nei confronti di pubblici ufficiali, inclusi i magistrati:
“Il diritto di critica nei confronti di esponenti della magistratura corrisponde ad un interesse pubblico e gode di limiti più ampi… purché la critica non si traduca in attacchi gravemente lesivi e infondati.” (Corte EDU, Morice c. Francia, 2015)
E ancora:
“Il dissenso è certamente un valore da garantire come bene primario in ogni moderna società democratica… purché non trascenda in manifestazioni espressive che diventino meri argomenti di aggressione personale.”
In questo senso, la sentenza della Cassazione è chiara: Sgarbi ha espresso un’opinione politica e giudiziaria su un fatto di rilevanza pubblica (Mani Pulite e l’uso delle carcerazioni preventive), partendo da dichiarazioni rese pubblicamente da Davigo. L’espressione “disgustoso cinismo”, sebbene forte, “è di per sé continente”, ovvero rientra nel perimetro del linguaggio ammissibile nella critica giornalistica.
Parola fine, ma non senza rumore
Con il rigetto definitivo del ricorso da parte di Piercamillo Davigo, la giustizia ha stabilito che non si può censurare un’opinione solo perché sgradita, se fondata su fatti veri e di interesse collettivo. La libertà di espressione – soprattutto quando esercitata da figure pubbliche e intellettuali – ha diritto di cittadinanza anche nei confronti della magistratura, purché non sfoci nella calunnia.
Sgarbi, da parte sua, ha accolto con soddisfazione la sentenza, rivendicando il proprio diritto a “dire ciò che pensa, sempre”. Una posizione controversa ma, ora, definitivamente legittimata dalla giustizia.