L’articolo di Federico Meli per la rubrica “Psicologia quotidiana”
VITERBO – Nel nostro modello educativo, la punizione è stata per secoli il principale strumento di correzione. Sin dall’infanzia, siamo stati abituati a credere che l’errore debba essere seguito da una sanzione, come se solo il dolore e la sofferenza potessero condurci al miglioramento. Tuttavia, numerosi studi dimostrano che questa convinzione è non solo inefficace, ma addirittura dannosa, tanto a livello sociale quanto individuale.
Le prove del fallimento del sistema punitivo
Uno degli ambiti in cui il fallimento della punizione è più evidente è il sistema carcerario. Le carceri tradizionali, basate su un modello repressivo e punitivo, mostrano tassi di recidiva estremamente elevati. Diversi studi, tra cui quelli condotti in Scandinavia, dimostrano che i sistemi carcerari basati sulla riabilitazione e sull’educazione – come quello norvegese – registrano percentuali di recidiva molto più basse rispetto ai modelli basati sulla punizione.
Secondo un rapporto del Norwegian Correctional Service, la recidiva in Norvegia è inferiore al 20%, mentre in sistemi punitivi come quello statunitense supera il 60%. Il carcere punitivo crea un ciclo di fallimento: il detenuto sconta la pena, esce senza aver acquisito nuove competenze o strumenti per una vita migliore, e inevitabilmente torna a delinquere. Al contrario, un modello basato sulla responsabilizzazione, sul supporto psicologico e sull’educazione offre ai detenuti reali possibilità di cambiamento.
L’autocoercizione: la prigione dentro di noi
Il vero problema è che questo modello punitivo non si applica solo a livello sociale, ma è radicato dentro di noi. Lo schema errore-punizione ci è stato così inculcato che lo abbiamo interiorizzato, trasformandolo in autocoercizione.
Quante volte, dopo aver commesso un errore, iniziamo a criticarci aspramente? Frasi come “Sono un incapace”, “Non valgo niente”, “Sbaglio sempre” sono espressioni di un giudice interiore severo, che ci punisce esattamente come farebbe un genitore o un insegnante troppo rigido.
Ma questa autocritica non migliora la nostra performance, anzi: ci paralizza. Se un bambino che sta imparando a camminare si sgridasse da solo ogni volta che cade, probabilmente smetterebbe di provare. Eppure, lo facciamo continuamente con noi stessi.
L’effetto della punizione sulla performance
Un esempio chiaro di questo meccanismo si osserva nello sport. Gli atleti che commettono un errore e reagiscono con autocritica eccessiva finiscono per compromettere la loro performance successiva. La paura di sbagliare li irrigidisce, li rende meno fluidi e più inclini a nuovi errori, creando un circolo vizioso.
Al contrario, chi accetta l’errore come parte del processo di apprendimento riesce a mantenere la concentrazione e la fiducia. Un allenatore efficace non punisce un atleta per uno sbaglio, ma lo aiuta a capire come correggersi. Allo stesso modo, dovremmo imparare ad allenare la nostra mente con un approccio più gentile e costruttivo.
Il bambino dentro di noi ha bisogno di guida, non di paura
Dentro ognuno di noi c’è un bambino che sta ancora imparando, che ha bisogno di sperimentare, di sbagliare e di essere accolto nel suo percorso. Quando ci puniamo per un errore, quel bambino si sente solo, spaventato, bloccato.
Il vero cambiamento avviene quando impariamo ad essere guide amorevoli per noi stessi. Invece di reagire con durezza all’errore, possiamo chiederci:
Cosa posso imparare da questo?
Come posso fare meglio la prossima volta?
Come posso supportarmi invece di distruggermi?
Questa è la chiave dell’apprendimento autentico e duraturo: trasformare la punizione in comprensione, la paura in fiducia, il giudizio in guida.
Per troppo tempo abbiamo creduto che senza punizione non potesse esserci miglioramento. Ma la scienza, l’esperienza e la nostra stessa interiorità ci mostrano che è vero il contrario: è l’accoglienza, la guida e la fiducia in noi stessi a renderci davvero liberi di crescere.
Federico Meli