Il boss Pasquale Zagaria, malato, è stato scarcerato. E spedito nella zona rossa del Coronavirus
ROMA – Pontevico è un paesino di settemila anime nella Bassa bresciana, a mezza strada tra il suo capoluogo di provincia e Cremona. È in zona rossa a causa del Covid. Fino al ritrovamento di una discarica abusiva di scorie tossiche, un anno fa, aveva guadagnato l’onore delle cronache solo per qualche furterello, la joint venture con gli Usa di una fabbrichetta locale di snack, l’elezione del sindaco di turno.
Poi il virus ha fatto strage in un istituto per donne con disturbi psichiatrici, il Bassano Cremonesini: ne sono morte ventidue, e la Procura ha aperto un’inchiesta. Pontevico è anche il paesino in cui è vissuta Francesca Linetti fino al matrimonio con Pasquale Zagaria, il capo dell’ala imprenditrice del clan dei Casalesi, e dove è tornata assieme ai figli dopo aver lasciato (pare per insanabili dissapori con le cognate) il piccolo regno, per lei claustrofobico, di Casapesenna. Non c’era più nessuno disponibile a portarle dolci e frutta fresca ogni mattina e a riconoscerle il rango di moglie di boss. Boss che a Pontevico, in piena zona rossa, trascorrerà i prossimi cinque mesi. Agli arresti domiciliari, concessi ieri (23 aprile) dal Tribunale di sorveglianza di Sassari, che ha disposto la sospensione dell’esecuzione della pena in virtù delle sue condizioni di salute. Malato di tumore, non poteva continuare le terapie perché in Sardegna, dove Pasquale Zagaria è detenuto al 41 bis, non poteva essere curato: gli ospedali sono tutti destinati all’emergenza Covid.
Ma non è il paradosso del trasferimento di un detenuto a causa del rischio coronavirus in un’area infestata dalla stessa malattia a interessarci. E neppure la vicenda personale di Pasquale Zagaria, fratello del capo del cartello dei Casalesi, Michele, e camorrista lui stesso. Certo, a fronte di un cumulo di pena di vent’anni complessivi, ne ha già scontati sedici. E tra un abbuono e l’altro sarebbe stato comunque tornato in libertà tra qualche mese. Piuttosto, il pasticcio burocratico che c’è dietro la pratica Zagaria, la contraddittorietà della decisione della Sorveglianza, il pilatesca ritardo dell’amministrazione penitenziaria, sollecitata sin dal 9 aprile a indicare un carcere alternativo a quelli isolani. Dap che, a cose fatte, 24 ore dopo l’ordinanza che disponeva la scarcerazione, si è decisa a segnalare due strutture forse disponibili a prendere in carico il detenuto-ammalato Zagaria. Perché questo, in sostanza, era stato richiesto dallo stesso (che, ovviamente, aveva anche fatto istanza di scarcerazione): e cioè, di potersi curare in sicurezza. E se in Sardegna non è possibile, sarebbe stato sufficiente il trasferimento in un qualunque altro carcere italiano con accesso veloce a un reparto di diagnostica oncologica, per gli “indifferibili accertamenti” sollecitati ieri alla stessa direzione della struttura penitenziaria. È di questa mattina, 24 aprile (con numero di protocollo 6489-41-20), la decisione-beffa del Dap.
In via d’urgenza, a vista, ha comunicato alla direzione del carcere “Bacchiddu” di Sassari, al Tribunale di Sorveglianza e alla Dda di Napoli di contattare “i reparti di medicina protetta degli ospedali Belcolle di Viterbo e Sandro Pertini di Roma, al fine di verificare se vi sia la disponibilità della presa in carico sanitaria del detenuto, la data in cui potrà essere inviato e con quale modalità (se in day hospital o con ospedalizzazione)”. Verifica ormai inutile ma che avrebbe potuto fare lo stesso Dap.