“L’asporto è un palliativo e il delivery è un costo: dobbiamo poter riprendere a lavorare per non chiudere perché così si fatica a coprire i costi fissi e non ha senso andare avanti”. Questo il pensiero di un ristoratore del nord, che racchiude quello di tutti i ristoratori italiani stremati dall’ incertezza e dai mancati guadagni ratificati dai Dpcm che si susseguono da quasi un anno.
Più di 300 mila le attività di ristorazione italiane con un indotto di oltre un milione di persone, che già da maggio 2020 hanno rispettato tutti i protocolli anti-covid richiesti dal Governo: tavoli e sedie distanziati, uso di mascherine e guanti in nitrile anche tra i fornelli, conservazione dei nominativi dei clienti per 14 giorni per facilitare il tracciamento, menù scritti su lavagne o stampati su fogli monouso e consultabili attraverso app e Qr code, installazione di pannelli in plexiglass dove necessario, gel igienizzanti in ogni dove, realizzazione di percorsi di entrata e uscita alternativi per evitare assembramenti. Tutto eseguito alla regola per riprendere a lavorare nella massima sicurezza, per poi ritrovarsi con le attività chiuse.
Molti di loro non ci stanno, e quasi 50 mila da tutto lo Stivale hanno aderito alla manifestazione di disobbedienza civile che avrà luogo venerdì 15 gennaio, vigilia dell’entrata in vigore del nuovo Dpcm che dovrebbe prevedere misure ancora più restrittive per bar e ristoranti come il divieto d’ asporto dopo le 18. Locali aperti di sera senza però trasgredire le norme: i clienti si siederanno ai tavoli in completa sicurezza. La rivolta pacifica è stata presentata sui social con gli hashtag #ioapro1501 e #nonspengopiùlamiainsegna e anche in queste ore continua a raccogliere copiose adesioni.