Proteste a Cuba, in crisi nera. Diaz-Canel invoca la resistenza e accusa gli Usa

Povertà, mancanza di cibo e generi di prima necessità, carenza di medicinali. Una crisi nera quella che travolge Cuba, combinato disposto di pandemia da coronavirus e crisi economica. E la gente scende in piazza, in una inedita espressione del dissenso contro il regime. Tutto è iniziato a San Antonio de los Banos, poi la protesta contro il Governo guidato da Miguel Mario Díaz-Canel si è diffusa in diverse città dell’isola, coinvolgendo migliaia di cubani. Una rabbia che si sfoga contro tutti i problemi di ieri e di oggi di Cuba, sulla cui testa continuano a pesare come un macigno decenni di embargo. “L’ordine di combattimento è stato dato”, ha detto Diaz-Canel, invitando tutti i “veri rivoluzionari” a scendere in strada per difendere il regime. Il presidente cubano accusa gli Stati Uniti di voler provocare disordini sociali nell’isola, mentre tutti i Paesi dell’area seguono con apprensione l’evoluzione della situazione – il Messico dice chiaramente “no a tentazioni interventiste” – e la lontana Russia mette in guardia contro qualsiasi “interferenza esterna” a Cuba.

L’accusa è diretta, in un tweet del ministro degli Esteri cubano Bruno Rodríguez, che reagisce al sostegno espresso dal consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan alla “libertà di espressione a Cuba”. “Il suo Governo – accusa Rodríguez – ha stanziato centinaia di milioni di dollari per promuovere la sovversione nel nostro Paese e attua un blocco genocida che è la causa principale delle difficoltà economiche”. Arriva anche un messaggio di Joe Biden, che invita il Governo cubano ad “ascoltare il popolo” e dare risposta alle loro necessità.

Sembra di essere tornati indietro con le lancette della storia. D’altro canto, un’esplosione simile della rabbia popolare, secondo analisti e osservatori, non si vedeva da oltre venticinque anni, dalla ribellione di Malecón del 1994 quando la situazione economica era molto simile a quella attuale. Addirittura, per l’attivista Carolina Barrero si tratta della “più grande manifestazione anti governativa che abbiamo vissuto a Cuba dal ’59”, anno della rivoluzione castrista. “Quello che è successo è enorme”. Per la crisi attuale, però, è impossibile non tener conto dell’impatto drammatico che la pandemia ha avuto sull’isola.

L’evoluzione delle proteste è stata documentata sui social network fin quando è stato possibile, ovvero prima che le autorità “spegnessero” Internet. I video postati su Facebook e Twitter riprendevano la marcia partita nella tarda mattinata da San Antonio de los Baños, comune della provincia di Artemisia a poche decine di chilometri a sud de L’Avana, poi diffusasi a macchia d’olio in tutta l’isola, da Palma Soriano a Cárdenas e Santiago de Cuba passando inevitabilmente per le vie della capitale. Proprio grazie agli hashtag #SOSCuba e #SOSMatanzas lanciati sui social, la protesta ha ricevuto maggior spinta. Il traffico stradale è stato bloccato dalle persone scese in piazza, per lo più giovani che hanno sfogato la propria frustrazione nei confronti del presidente Díaz-Canel – il primo dell’era post Castro, da tre anni alla guida del Paese e da poco tempo eletto nuovo leader del Partito comunista dopo l’addio di Raul. I negozi statali sono stati presi d’assalto in quanto simbolo ed emblema della rivolta per via dei prezzi altissimi delle merci, acquistabili in valute straniere che la maggior parte dei cubani non possiede.

Inizialmente la polizia è rimasta a vigile sorveglianza della folla, ma il crescere della tensione ha portato a uno scontro fisico, che ha visto le forze dell’ordine reagire ai sassi lanciati dai manifestanti con lacrimogeni e alcune cariche per disperdere le persone. Altri filmati riprendevano scene da guerriglia, con alcune auto della polizia capovolte dai manifestanti e Jeep delle forze speciali equipaggiate con mitragliatrici. Tutto questo trova la sua ragione di esistere nella richiesta della popolazione che pretende maggior libertà: “Non ne possiamo più. Non abbiamo paura. Vogliamo un cambiamento, non vogliamo più una dittatura”, ha detto uno dei manifestanti raggiunto telefonicamente dalla BBC, sintetizzando il sentimento generale che lamenta la mancanza di cibo e medicine.

Lo scorso anno l’economia cubana si è ridotta dell’11% facendo registrare il peggior calo da trent’anni a questa parte. A causa delle restrizioni per contenere il contagio, a mancare sono stati gli introiti del turismo, vitali per un Paese come Cuba. Il risultato sono le lunghe file che si vedono fuori dai negozi di alimentari per accaparrarsi i prodotti di base, con molte persone rimaste senza lavoro dopo aver abbassato le serrande dei loro ristoranti ed altre attività. “Non è più una questione di libertà di espressione, è una questione di fame”, ha sottolineato Adonis Milán, direttore di teatro e attivista più volte arrestato. “La gente chiede la fine di questo governo, del regime monopartitico, della repressione e della miseria che abbiamo vissuto per 60 anni”.

Le riforme apportate dal governo di Miguel Mario Díaz-Canel – su tutte, quella per eliminare la dualità monetaria che ha posto fine al CUC, il peso cubano parificato al dollaro americano in circolazione dal 1994, lasciando di fatto solamente il CUP – e l’apertura al settore privato, autorizzato ad operare in oltre duemila ambiti economici rispetto ai 127 di qualche mese fa, avevano l’obiettivo ambizioso di far cambiare veste al Paese, cercando così di farlo uscire dall’isolamento in cui vive da decenni a causa dell’embargo. Ma la condizione da pagare è stata alta. Non a caso, molte aziende statali sono fallite e l’inflazione è schizzata alle stelle. I prezzi alimentari hanno subito un incremento immediato, così come quelli del servizio elettrico, telefonico e dei trasporti mentre a poco sono serviti i tentativi di arginare la crisi mettendo mano ai salari e all’assistenza sociale.

Una situazione che ha avuto come diretta conseguenza l’abbandono dell’isola, con molti cubani che hanno provato a raggiungere le coste americane. Un tentativo che non sempre ha visto un lieto fine, come per i nove migranti dispersi al largo di Key West, in Florida, sui quali si è smesso di cercare. Dallo scorso ottobre, la Guardia costiera statunitense ha raccolto in mare più di 512 esuli, un aumento esponenziale rispetto ai 49 dell’intero anno precedente. Il rapporto tra L’Avana e Washington continua a oscillare tra momenti di apertura e dialogo ad altri di accuse reciproche. Uno degli ultimi provvedimenti voluti di Donald Trump, dimostratosi tutt’altro che conciliatore con l’isola durante la sua amministrazione, è stato quello di rimettere Cuba all’interno della lista dei Paesi sponsor del terrorismo. Con l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca i toni sembravano leggermente cambiati, esortato da molti democratici a riprendere i contatti in modo pacifico con il governo cubano. Una ripresa dei rapporti che però sembra essersi resa ancora più complessa, specie adesso che il governo cubano è tornato alla carica puntando il dito contro Washington per la sua responsabilità nelle proteste di domenica e, più in generale, per il tentativo di “provocare una massiccia implosione sociale”.

Le bandiere a stelle e strisce sventolate dai manifestanti hanno solamente dato più certezze ai cubani, consapevoli su come “il governo degli Stati Uniti è il principale responsabile dell’attuale situazione a Cuba”, ha tuonato il ministero degli Esteri riprendendo le parole del presidente, che ha insistito a definire i manifestanti “stipendiati” dalle autorità statunitensi, colpevoli di aver portato avanti una campagna di diffamazione anti governativa sui media. Ancor più pesante ci è andato Carlos F. de Cossio, il direttore generale di Cuba per gli affari statunitensi che si è scagliato contro il Dipartimento di Stato Usa e i suoi funzionari “coinvolti fino al collo nella promozione dell’instabilità sociale e politica a Cuba” e che per tale ragione “dovrebbero evitare di esprimere ipocrita preoccupazione per una situazione su cui hanno scommesso. Cuba”, ha concluso il direttore generale, “è e continuerà ad essere un Paese pacifico, contrariamente agli Stati Uniti”.

Già, perché se da una parte l’appello a reti unificate del presidente cubano rivolto “a tutti i rivoluzionari e comunisti” affinché “scendano in strada” in difesa della rivoluzione, chiedendo di opporsi “in modo deciso, fermo e coraggioso” al tentativo insurrezionale, è stato raccolto immediatamente dai militanti del partito che hanno indetto contro-manifestazione, sulla riva di fronte bagnata dall’Oceano è stato ascoltato con profonda preoccupazione. “Sosteniamo la richiesta del popolo cubano di manifestarsi pacificamente. Invitiamo alla calma e condanniamo ogni violenza”, ha scritto sul suo account Twitter il vice segretario di Stato aggiunto per gli affari dell’emisfero occidentale, Julie Chung.