Siamo impresentabili

Siamo governati da impresentabili e siamo impresentabili noi stessi. Basta un giorno come oggi a definire l’italia. 

Iniziamo da stamattina. 

Orte, perchè se non vuoi morire sul treno conviene Orte, che di buono, per i viterbesi, ha solo la stazione. 
Noi a Viterbo, manco quella. Parcheggio, la macchina cambia soldi è stata estirpata dalla sua sede. Le macchinette per i biglietti del parcheggio non danno resto, quindi se hai due euro ti frega 50 centesimi, fallo su 50-100 persone tutti i giorni e poi vedi. Son soddisfazioni grosse trovare uno che ti cambia 2 € in pezzi da 50 cent.

Treno per Roma più corto, pendolari incazzati come api che se la prendono con un capotreno terrorizzato, un Fantozzi di 60 anni che poverino paga le scelte dei Serbelloni Mazzanti vien dal Mare che ha come padroni. Un uomo urla, disperato, già presagisce il rientro sulla linea lenta. Ci sono bagagli nella corsia e nessuna valigia sulle cappelliere. Si passa a stento c’è odore di bucato e di ascelle. Indiani che dormono, russando sonoramente. Un bambino piange. Ci sono ancora termini di peggioramento. 

 

Arrivi a Termini vera. Caos ovunque, alla metro hanno chiuso 6 stazioni. C’è sporcizia, le scale mobili, quella di Barberini per esempio, è contornata di rifiuti e calcinacci e una delle due scale mobili disponibili è chiusa. Scendiamo come carne da macello dentro un trita rifiuti. Il caldo è insopportabile. L’unico ristoro? Quando arriva la metro che sposta aria fresca dai tunnel.

Arrivi in una via bollente nei pressi, si riceve dalle 14,30, dice il cartello A4. Fai la fila dall’una, col fresco s’intende. Passano scooter come ne fossimo infestati, macchine lucide con la benzina pagata da altri, bus senza tetto con turisti rossi come gamberi. E poi cortei di protesta, auto del governo, di fretta, con le sirene. 

Le guardo, mi chiedo: chissà perché le auto del governo, i politici, le sirene , vanno sempre di fretta. Che cazzo di fretta avranno mai che è tutto fermo in questa nazione e loro comunque, le file non le fanno? Come se, quando passano, gli altri non esistessero, quando invece loro esistono perché ci sono gli altri che passano senza fretta. 

Cellulari dei carabinieri e poi auto blu, sirene, taxi che sfrecciano. La strada come un cuore nero che riceve e pompa via, riceve e pompa via. I valet in lungo nella zona degli alberghi, chiamano taxi compiacenti, tra zaini e shorts, puzza e giornali, aiuole e alberi stanchi e assetati. Passano broker asciutti con le camicie, quelle doppio ritorto slim fit, e subito dietro operai con ventri prominenti, sporchi, in maglie sudate e slargate. E turisti. Ovunque. Dappertutto. Io credo che vengano a vedere un miracolo solo nostro. Vengono a vedere come sia possibile che ci sia ancora l’italia, che ci sia ancora gente che ci viva senza protestare. E a controllare che non si siano fottuti tutto. 

 

Cappelli, capelli, urla, due zingare sedute sulle scale della metro, il cameriere che ti saluta per portarti a pranzo nel locale del padrone cinese. Metro al contrario, tre ragazzine, massimo 13 anni, fanno le smorfie, danno un calcio ad una lattina, urlano, dicono parolacce, un ragazzo mi dice che le hanno beccate mentre borseggiavano. Non gli fanno nulla, dice. Un turista passa vicino a una di loro. Lei gli sputa. Nessuno dice nulla. Salgo in un forno di carne messa ad arrostire. So che la prossima fermata è Termini, ma il cartello dice Ponte lungo.

Arrivo in stazione. Vado verso i binari ad est, passo dietro delle grate, un operaio è seduto nel tunnel vuoto e guarda il mondo là fuori. Faccio una foto. L’unico che mi ricorda poesia. L’unico che mi ricorda il mare. 
Un passeggero vomita mentre intorno si vedono solo facce che cercano informazioni, che non ci sono. Ci sono escrementi a terra, tra le panchine. Risalgo sul treno che è pieno come una vagina durante un parto e come si muove per partire, l’aria condizionata si spegne. Giusto oggi. 

Inizio a sudare, sono bagnato, fradicio sotto il collo, sul busto, la schiena. Un ragazzo di fronte a me, avrà vent’anni ha i capelli zuppi, si stacca di continuo la maglietta dalla schiena cerca di levitare sul sedile e non ci riesce. I finestrini sono blindati. C’è da sentirsi male. La via è quella lunga, c’era scritto sul cartello in A4 sulle colonne in stazione. Io non l’ho vista. 

E’ un supplizio. Inutile parlare del ritardo, qui bisogna parlare della salute che rimane se si sopravvive. Sul treno due che passano con le bibite messe dentro dei secchi, fanno le manovre per passare tra i bagagli del corridoio. Le cappelliere sono sempre vuote. 

Arrivo. C’è una transenna, di quelle di plastica arancione, intorno ad un palo della luce. Plastica e palo faranno a gara a chi si decomporrà prima. 
Arrivano a prendermi. Sono 15 ore che sono fuori in un giorno rovente. 

Questo è. 
Declino. Abbandono. Degrado.
Siamo quelli del condono, del perdono, del patrono, della mamma, delle promesse, dei “noifaremo” delle mazzette, dell’illegalità che diventa legale.
Siamo tutti complici. 
Oggi poi, visto tutto da dentro ad un forno. 
Io ormai non sono più fiero di nulla. Forse di qualcuno che conosco, forse solo della storia e dell’arte che ci hanno lasciato. 
Per il resto… pensateci. 
Forse sono io. 

Ma davvero: così, siamo veramente impresentabili.

di BRUNO PAGNANELLI