Roma – Tela rubata al castello di Buriasco. Sgarbi: «Da “Report” e “Il Fatto” gravissime diffamazioni»

ROMA – Riceviamo e pubblichiamo la replica di Vittorio Sgarbi alle ricostruzioni che sottosegretario ritiene infondate e gravemente diffamatorie e che da giorni la trasmissione del servizio pubblico “Report”, insieme al quotidiano «Il Fatto», giornale megafono del Movimento 5 Stelle, rilanciano con decine di articoli e filmati:

“Siamo al paradosso, all’insulto, al dilettantismo e alla menzogna sistematica delle pseudo inchieste (con più di 30 articoli contro di me, contro le mie conferenze, contro le mie presentazioni, di mostre e di libri) da parte del “Fatto Quotidiano” e dal pappagallo stitico Antonio Scarsi, che dice di chiamarsi Andrea Scanzi, ed è abituato a parcheggiare i suoi motocicli nelle aree dei disabili (forse per la consapevolezza della sua disabilità). Secondo questi dilettanti, un competente non va bene al governo: non deve parlare d’arte.

Eccitati da una vita che non capiscono, nella continua ricerca della bellezza, due giovani disperati e fino ad oggi sconosciuti, Pinocchi  Meckinson e Gege’ Bonaccorsi, l’uno dell’infetto quotidiano, l’altro della trasmissione di servizio pubblico “Report”, mi inseguono da settimane in ogni luogo, anche dove non sono, richiedono appuntamenti, soffrono e godono. Ma non capiscono. Non possono capire, nella loro insensata  vita, che una persona spenda tutto il suo danaro per acquistare opere d’arte, e che insieme le studi, che abbia scritto centinaia di libri e saggi, che abbia organizzato mostre in ogni dove, che faccia lezioni e racconti l’arte. E che sia premiato per quello che fa, che è davanti agli occhi di tutti.

Sbavano, invidiano, sono brutti, untuosi, con l’alito pesante, e si improvvisano, fra ghigni dolenti, critici d’arte, cercando ogni traccia dei miei passaggi.

Ignorano il buono e il giusto. Ignorano che la collezione che io ho raccolto, con il mio impegno, con la mia ricerca e con i danari guadagnati nel corso degli anni, è blindata entro una fondazione dedicata ai miei genitori, con 500, dico, 500 opere d’arte vincolate dallo Stato per mia volontà, come collezione. E quindi indivisibili, invendibili, unite da un solo spirito.

Adesso si sono superati , vagheggiano  di furti, citando episodi inverosimili, accusando persone socialmente impegnate, e utilizzando delatori, con particolare attenzione ad autisti, che raccontano quello che non hanno capito e non capiscono.

Mirabile un tal La Mura che, ignaro di centinaia di battute d’asta e di fatture, pensa che tra i modi di studiare e di ricercare ci sia anche il furto.

Improvvisandosi psicologo, nella miseria della sua vita, afferma:  “Sgarbi è un collezionista compulsivo, quando si trova davanti ad un opera di grande valore salta fuori questo suo lato “.

E aggiunge, per stare dentro e fuori, ed essere intervistato per una volta nella vita : “chi materialmente lo prelevò {il quadro} dal castello questo proprio non lo so, certamente non io” {fra l’altro proclamandosi sospetto}. Ho smesso di lavorare per Sgarbi alla fine del 2012″.

Si tratta di rivendicatori.  La Mura cercava soldi, e dimentica di dire che ancora oggi lavora, grazie a me, con il padrone che gli ho presentato, Adolfo Vannucci, petroliere.

Stia attento, Adolfo.

L’altro, con il profilo del traditore, è un autista di camioncini, e affitta camere inesistenti, autoproclamatosi “Social Media Manager”, condannato e arrestato, tale Dario Di Caterino, così credibile e divertente da dirsi in coma, commuovendo i congiunti, per nascondere i suoi arresti domiciliari.

Un altro ancora, debole autista, e buon bevitore, tale Kevin, rumeno, colto in stato di ebbrezza e fatto dismettere dalla guida, è molto ascoltato, nei suoi deliri approssimativi.

A questi personaggi, credibili e affidabili e senza motivi di astio, si aggiunge un restauratore fallito, Gianfranco Mingardi, molto amato da mia madre, che oggi lo prenderebbe a schiaffi, e molto da me sostenuto e aiutato affidandogli dipinti e sculture fino a farlo restaurare, nell’indifferenza dei giornalisti di inchiesta, perfino per Berlusconi, con lauti guadagni.

Tu li aiuti, e loro ti pugnalano. Ma entriamo nel merito dell’ultima avventura inventata dai due giornalistucoli.

Vanno a cercare l’ultimo traditore, e trovano il restauratore che, senza aver mai fatto un preventivo e senza mai avermelo proposto, per il suo modesto lavoro chiede centinaia di migliaia di euro, non proponendo documentazione, non offrendo resoconti, fino a dar prova del suo declino nel restauro dell’opera più importante, e da me notificata allo Stato, della fondazione : il “San Domenico” di Nicolò dell’Arca, impasticciato con orrende vernici, e  poi recuperato dalla valorosa e rigorosa Franca Gambarotta, una vera restauratrice.

Nasce tra me e lui un contenzioso, per cui io ritengo di doverlo pagare il giusto, ed egli negozia con il mio bravo e onesto assistente Sauro Moretti 8000 €, e il resto si fa materia di avvocati.

Nel frattempo mi ruba alcune opere consegnategli: un dipinto tedesco del ‘500, una “Vanitas”, una mirabile cornice barocca, di cui mi resta il pendant, cere e sculture che è incapace di restaurare. Alcune sono state presso di lui anche vent’anni, senza che riuscisse a restaurarle.

Non vedeva l’ora di confidare presunti segreti che non ci sono, e ha iniziato a fare illazioni con caparbia determinazione. Così ha offerto ai due giornalisti di incerta inchiesta due succulenti primizie, benché assai scadute.

L’una, una incredibile storia che non mi riguarda. Un amico perduto acquista un dipinto nero di vernice, e mi chiede un parere: il quadro è illeggibile e io gli suggerisco di portarlo, come egli fece, a Mingardi, il quale, più che pulirlo, lo ridipinge perché la pittura evapora, come accade con i quadri di fattura recente.

 L’amico me lo riporta pulito e io mi accorgo che è una copia (forse da Valentin de Boulogne) e quindi, dopo la ricerca su altre copie, il mio collaboratore, infastidito e disturbato dai soliti, Giuseppe Pinna, stende alcune note generiche. E io non scrivo la perizia. Più di così!

Si guardino il Valentin di Roberto Longhi, acquisito in cambio di una perizia. Io mi limito a presumere una copia.

Un giorno il proprietario lo manda a ritirare, e i carabinieri lo ritrovano a Montecarlo. La storia è descritta in una lunga inchiesta iniziata nel 2021 a carico di un amico che aveva dialogato con la mia assistente.  Un esperto d’arte che ha a che fare con i trasporti delle opere è cosa che non si era mai vista.

Ma ora sono accusato per non aver periziato un non Valentin de Boulogne che, secondo gli infetti, varrebbe 5 milioni di euro e che il proprietario pagò, a mia scienza, 10.000 € .

Scritti fiumi di insensatezze su questo caso, le cui indagini preliminari si sono prolungate ben oltre i tempi previsti dalla legge, arriva la seconda storia: e anche qui bugie, imprecisioni, accuse.

Nella bellissima e piena di affreschi e stucchi, e da ma fatta accatastare e vincolare , Villa Maidalchina che, con la collezione notificata, è patrimonio della Fondazione  Cavallini-Sgarbi, durante i necessari restauri del tetto, condotti intorno al 2006/2007, piegata e molto impolverata, trovo una tela, in presenza di testimoni che ricordano l’accaduto, che mi pare di scuola senese, e propriamente di Rutilio Manetti.

Capire i quadri è una cosa difficile. E perfino incomprensibile per neofiti, avventati e avventizi. Ma una cosa è certa: la pratica delle repliche è diffusissima, e quasi di ogni dipinto vi sono derivazioni e copie, talvolta assai fedeli perché eseguite sui medesimi cartoni. La qualità di un originale è rara.

E così, qualche tempo dopo, come apprendo dai laboriosi inseguitori con annessi autisti e panzanisti, nel 2008, presento un libro in un castello, trasformato in ristorante, vicino a Pinerolo, pieno di quadri, molto modesti, in gran parte copie ottocentesche e novecentesche, nessun originale, forse venduto e sostituito con falsi, come ho pensato (e dalle fotografie non sarà difficile verificarlo).

Li guardo con divertimento, e fra essi vedo un dipinto molto malandato, assai simile a quello ritrovato da me alla Maidalchina, ancora una copia, e di diverse dimensioni.

Dopo qualche tempo (non usavo allora i telefonini per fotografare, come può ricordare il mio fedelissimo assistente Roberto Saporito) chiedo a due amici che abitano relativamente vicini, uno dei quali il serissimo e legalitario (cresciuto con Antonino Caponnetto) Paolo Bocedi, intollerabilmente accusato e infamato, di andare in quel castello e di farmi una fotografia (è il reato di fotografia), per il confronto tra il mio originale e quella copia. Mai da alcuno riferita al Manetti, e tenuta, a quanto ricordo, a copertura del vano cucina fra fuochi, fumi e lessi, piena di tagli e di buchi, a far capire quanto fosse considerata.

Ora Mingardi, nel suo tristo desiderio di vendetta, si esalta mostrando una tela arrotolata che dice essere il dipinto di cui si parla. Peccato che sia una malconcia tela forse del 700, come potrebbe essere quella di qualunque quadro.

Nel suo pressappochismo mostra solo il lato posteriore, e parla di interventi che crede di aver fatto e probabilmente ha fatto a una tela che non mi apparteneva, che non gli ho portato io, e di cui non gli è mai interessata, come di ogni altro quadro, la provenienza.

La riservatezza era la sua migliore qualità: nessuno gli ha mai sentito proferir parola. Ed eccolo garrulo, come un autista qualsiasi, con i due pinocchi.

Infatti, oltre alla questione generale delle copie che fu la ragione della mia curiosità, i due improvvisati cacciatori ignorano che il dipinto mio, quello trovato alla Maidalchina, in condizioni relativamente buone, fu restaurato da un altro restauratore, in un altro laboratorio, non a Brescia, con una attenzione ben superiore a quella del sempre più svogliato Mingardi. Non ne dico il nome per evitare di farlo disturbare dai due neofiti , ma sono pronto a fornirlo, come testimone onesto, a chiunque voglia fare una verifica sullo straccio mostrato da Mingardi, assatanato di ingiustificata vendetta, e l’originale che è nella casa dei miei genitori, e che intendo portare nel mio ufficio al Ministero della Cultura per arredo.

Se qualcuno potrà dimostrare che quella bellissima opera, di misure completamente diverse (almeno quaranta centimetri per lato) ha a che fare con lo straccio rubato sono pronto a restituirlo a chi non l’ha mai posseduto.

 Aggiungo, valutando le mie denunce dei redditi, che i valori di mercato di Rutilio Manetti sono alquanto bassi e che quando lo esposi, proprio per il suo singolare luminismo, per lo spazio architettonico della colonna dietro il sadico giudice, non era affatto, né alcuno lo disse, la “scoperta” della grande mostra di Lucca su “Caravaggio e Pietro Paolini. I pittori della luce”. Era semplicemente inedito. E corredato di una scheda mia e del massimo esperto del pittore Marco Ciampolini.

In mostra c’erano ben 13 dipinti della mia collezione.

All’ultima asta cui è apparso un commovente Manetti con “Le stimmate di Santa Caterina”, di proprietà di Giovanni Pratesi, l’antiquario che molte cose acquistò alla Maidalchina, prima che io ne diventassi proprietario, ha raggiunto in asta da Sotheby’s la cifra record di 22.000 euro!

Io l’ho battuto e non l’ho acquistato.

Gli avventizi farneticavano di centinaia di migliaia di euro, e così il loro rintronato pappagallo. Era il 22 marzo del 2023.

Forse  i ladri del castello avevano fatto male i loro conti.

Spero di poter acquistare il prossimo Manetti con le cause all”Infetto” e a Report, diffamatori abituali, pallide copie di giornalisti”

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