Il criminale era ricoverato nel reparto detenuti dell’ospedale, in una stanza blindata
Matteo Messina Denaro, arrestato il 16 gennaio scorso dopo 30 anni di latitanza, è morto nella notte nell’ ospedale de l’Aquila dove era ricoverato, in una stanza blindata, da agosto.
Il capomafia, 62 anni, era malato da tre anni di tumore al colon. Venerdì, era stato dichiarato in coma irreversibile. I medici, sulla base delle indicazioni date dal paziente, che nel testamento biologico ha rifiutato espressamente l’accanimento terapeutico, nei giorni scorsi gli hanno interrotto l’alimentazione.
Già era stato deciso che alla luce dell’aggravamento delle condizioni di Matteo Messina Denaro non era più in agenda, per sanitari e istituzioni che stanno gestendo la complessa vicenda, il tema del suo ritorno nel carcere di massima sicurezza dell’Aquila dove è stato rinchiuso in regime di 41 bis fino all’8 agosto.
Nei giorni scorsi, Messina Denaro era andato in coma per la reazione di farmaci somministrati per la terapia del dolore: le sue condizioni da giorni ormai era gravissime, venerdì era giunta a L’Aquila anche la figlia al capezzale del padre morente.
«Prima o poi lo prenderemo». Nella promessa di mettere fine alla latitanza di Matteo Messina Denaro si sono esercitati in questi anni ministri dell’Interno, investigatori, magistrati. L’ultima «primula rossa» di Cosa Nostra, 60 anni, arrestata il 16 gennaio, si era reso irreperibile subito dopo la cattura di Totò Riina, avvenuta proprio trent’anni fa. E mentre la polizia scientifica si incaricava di aggiornare, invecchiandola, l’immagine giovanile del boss il suo impero miliardario veniva pezzo per pezzo smontato e sequestrato. È così che è stata smantellata la sua catena di protezione e di finanziamento. È così che è stato demolito il mito di un padrino che gestiva un potere infinito ma viveva come un fantasma, anche se la sua invisibilità non gli ha impedito di diventare padre due volte.
Di una figlia si sa tutto: il nome, la madre, le scelte che l’hanno portata a separare la propria vita dall’ombra pesante di un padre che forse non ha mai visto. Ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza in casa della nonna, poi con la madre ha cambiato residenza: non è facile convivere con lo stress delle perquisizioni, dei controlli e delle irruzioni della polizia. Dell’altro figlio si sa invece quel poco che è trapelato dalle intercettazioni: si chiama Francesco, come il vecchio patriarca della dinasty, ed è nato tra il 2004 e il 2005 in quel lembo della provincia di Trapani, fra Castelvetrano e Partanna, dove Matteo Messina Denaro ha costruito il suo potere economico e criminale.
Attento a gestire la sua latitanza, e a proteggerla con una schiera di fiancheggiatori, uno dei boss più ricercati del mondo ha lasciato di se solo l’immagine di un implacabile playboy con i Ray Ban, le camicie griffate e un elegante casual.
E dietro questa immagine ormai scolorita una scia di leggende: grande conquistatore di cuori femminili, patito delle Porsche e dei Rolex d’oro, maniaco dei videogiochi, appassionato consumatore di fumetti. Di uno soprattutto: Diabolik, da cui ha preso in prestito il soprannome insieme a quello con il quale lo chiamavano i suoi fedelissimi. Un altro ancora glielo hanno affibbiato i suoi biografi «’U siccu»: testa dell’acqua, cioè fonte inesauribile di un fiume sotterraneo. Anche nei soprannomi Matteo Messina Denaro impersonava il doppio volto di un capo capace di coniugare la dimensione tradizionale e familiare della mafia con la sua versione più moderna. Il padrino di Castelvetrano si è sempre mosso tra ferocia criminale e pragmatismo politico.
Erede di Benardo Provenzano
Per questo è stato considerato l’erede di Bernardo Provenzano ma soprattutto del padre don Ciccio altro boss della nomenclatura tradizionale morto da latitante nel 1998. Quando il vecchio patriarca scomparve, del giovane Matteo si erano perse le tracce già da cinque anni, nel 1993, prima ancora che fosse coinvolto nelle indagini sulle stragi di quegli anni. E da allora Diabolik era sempre riuscito, a volte con fortunose acrobazie degne dell’imprendibile personaggio del fumetto, a sfuggire ai blitz. Su di lui era stata posta una taglia da un milione e mezzo, ma per fargli attorno terra bruciata gli investigatori hanno stretto in una tenaglia micidiale la rete dei fiancheggiatori. Neanche i suoi familiari sono stati risparmiati: la sorella Patrizia, arrestata e accusata di avere gestito un giro di estorsioni, il fratello Salvatore, i cognati, un nipote. E tanta gente fidata, costituita da prestanome spesso insospettabili, che hanno subito ripetuti sequestri patrimoniali. Il «fantasma» di Messina Denaro era inseguito da una montagna di mandati di cattura e di condanne all’ergastolo per associazione mafiosa, omicidi, attentati, detenzione e trasporto di esplosivo. Nei più gravi fatti criminali degli ultimi trent’anni, a cominciare dalle stragi del ’92 in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è stata riconosciuta la sua mano. Lui stesso, del resto, si vantava di avere «ucciso tante persone da riempire un cimitero».
Ma se la fama di uomo spietato gli viene riconosciuta qualche dubbio si è insinuato sulla sua reale capacità di ricostruire, dopo gli arresti di Totò Riina e di Bernardo Provenzano, la struttura unitaria di Cosa nostra intaccata dagli arresti e da un processo di frammentazione. Un boss che ha traghettato Cosa Nostra nel secondo millennio, senza però riuscire ad evitare di fare la stessa fine dei vecchi padrini.