Inaugurazione il 25 febbraio 2023 alle ore 11:30 al Museo di Palazzo Doebbing
SUTRI – «Si viene a Sutri per vedere quello che altrove non si vede – racconta Vittorio Sgarbi–. L’arte non può essere abbandonata perché non c’è un momento in cui si possa rinunciare a rappresentare il mondo.
E il mondo è dentro questi artisti, ognuno dei quali è lo specchio di una sensibilità diversa, triste, solitaria e finale. Finisce così una lunga stagione di proposte che ha rivelato artisti difficilmente visibili nei luoghi deputati per l’arte contemporanea. Scoperte e riscoperte che hanno caratterizzato sette edizioni di mostre».
Dopo ben sette edizioni, giunge quindi al termine la stagione espositiva a cura di Vittorio Sgarbi al Museo di Palazzo Doebbing con una mostra dal titolo “Sutri. Triste, solitario y final”.
La mostra, ideata da Vittorio Sgarbi e prodotta da Contemplazioni, è resa possibile grazie a Intesa Sanpaolo, che dal 2020 conferma il suo sostegno in qualità di unico partner.
«Intesa Sanpaolo crede fortemente nel valore strategico che la cultura ha per il Paese e nel ruolo chiave che riveste per lo sviluppo dei territori, anche per il valore che sa generare sul piano sociale, economico e occupazionale – dichiara Roberto Gabrielli, responsabile della Direzione Regionale Lazio e Abruzzo di Intesa Sanpaolo –. Inserito a pieno titolo nel Piano di Impresa 2022-2025 della Banca, l’impegno si concretizza anche con il supporto a numerose iniziative territoriali come la mostra Sutri. Triste, solitario y final, tappa conclusiva di un percorso pluriennale di grandi mostre che ha portato nella piccola perla della Tuscia una grande varietà di esperienze artistiche e che abbiamo sostenuto con entusiasmo».
Il riferimento alla citazione de Il lungo addio di Raymond Chandler, che ispirò il titolo del romanzo di Osvaldo Soriano Triste, solitario y final, è inequivocabile.
Questa mostra è l’ultimo omaggio di Vittorio Sgarbi alla città che, per cinque anni, lo ha visto sindaco. Sutri. Triste, solitario e finale. Ma il suo è più un arrivederci che un addio.
Il risultato è dunque una mostra controversa e originale, nella quale protagonisti sono i molteplici artisti che affollano le sale espositive al pari delle stelle del cinema del passato che Soriano coinvolge nel suo racconto. Lo scenario è il mondo dell’arte, con i suoi miti, il suo poliedrico immaginario, la sua straordinaria bellezza e vivacità. Qui gli artisti attraverso le loro opere raccontano la loro vita, le loro esperienze e sensazioni, ma soprattutto la loro solitudine, quasi a voler creare una realtà parallela nella quale ognuno possa scegliere il suo personaggio preferito.
Dyalma Stutus (Trieste, 1901 – Darfo Boario Terme, 1977) non può essere collocato in una precisa corrente artistica perché, sin da ventenne, aveva espresso il desiderio di essere libero di dire, agire, creare. Proviene da una famiglia poverissima e raggiunge il successo con le sue sole forze.
Un’identità doppia, quella di Stultus, contesa tra la città d’origine, Trieste, e la città d’adozione, Firenze. Affascinato dalla pittura di Felice Carena, suo fraterno amico, accoglie le suggestioni del contesto artistico-culturale toscano e del linguaggio novecentista più in generale, elaborando tuttavia uno stile riconoscibile e di profonda interiorità. Illustre piemontese, Pinot Gallizio (Alba, 1902 – 1964) si affaccia al mondo dell’arte nel 1952: ha quasi cinquant’anni, una vita da farmacista e un’esperienza da partigiano alle spalle. Affronta il processo creativo con curiosità, senza tradire le sue conoscenze di chimica, anzi, sfruttandole artisticamente: produce con frenesia resine e solventi, come un alchimista dei pigmenti, sempre alla ricerca di nuove
composizioni. Gallizio è del tutto disinteressato all’aspetto economico, tanto da dipingere le sue tele al metro per poi venderle al mercato, affinché tutti possano acquistarle, come se fossero oggetti qualunque. Una pittura industriale quella di Gallizio, che sfida l’elitarismo dell’arte.
Se Gallizio dedica all’arte pochi ma intensi anni, diversa è la storia di Saverio Rotundo detto “U Ciaciu” (Catanzaro, 1923 – 2019): la pulsione creativa pervade la sua vita, lunga quasi un secolo.
Non solo artista, ma anche fabbro e inventore: recupera gli oggetti abbandonati per donare loro nuova vita, perché è convinto che la “spazzatura sia oro” e che anche da un vecchio ferro arrugginito possa generarsi poesia. Creava per sé stesso e per il piacere di farlo. Una ricerca convulsa, caotica, spesso eccentrica, come attestano le sue “nausee d’arte”, mostre itineranti allestite nelle piazze di tutta Italia.
Umorismo, fantasia, creatività ma anche trasgressione e surrealismo. Questo è Benito Jacovitti (Termoli, 1923 – Roma, 1997), i cui disegni hanno fatto la storia del fumetto italiano. Chiuso nel suo studio, con un foglio di carta e un pennino “Perlier”, Jacovitti riesce a inventare un paese
delle meraviglie, invaso dal paradosso e dall’assurdo, popolato da personaggi buffi, con i nasi gonfi come palloncini, dagli inconfondibili salami e dalle lische di pesce. Un vero e proprio universo a sé, originale e irripetibile, quello ideato dal genio di Jacovitti: folle, inventore, ironico, volutamente ingenuo, egli ricerca, attraverso i suoi personaggi, l’infanzia felice che sentiva di avere ormai perduto.
Un universo delle meraviglie non può esistere invece per Bruno Canova (Bologna, 1925 – Lacco Ameno, 2012) soprattutto dopo aver vissuto l’orrore dei campi di concentramento come prigioniero politico. Canova non costruisce le sue opere come narrazione di vissuti personali, ma sceglie il linguaggio artistico, con il rigore storico di un ricercatore, per indagare il mondo insidiato dalla civiltà contemporanea, le atrocità della guerra, la sconsolata
crudeltà dell’uomo, i misteri dei giardini abitati da presenze enigmatiche, le bellezze delle profondità degli oceani. Raccoglie ritagli di giornale, manifesti dell’epoca, fotografie, lettere e, con le sue incredibili capacità tecniche, dà vita a frammenti disegnati, a tavole e tele, a collages, che sono testimonianze storiche di soprusi, sopraffazioni, oltraggi all’umanità. Un testamento morale che invita a non dimenticare.
Triste e solitaria la scelta a cui è costretto Gianfranco Ferroni (Livorno, 1927 – Bergamo, 2001): allontanarsi dai suoi genitori, che non condividono l’idea di una vita all’insegna dell’arte.
Autodidatta, si avvicina ai pittori del realismo esistenziale con i quali condivide un forte senso di disperazione. Dopo un viaggio in Sicilia la sua poetica muta: Ferroni vuole cogliere l’essenza del reale, limpido ed enigmatico, e dipinge la quotidianità senza esaltazioni o idealizzazioni. Il suo studio è il suo tempio, un rifugio disadorno e solitario. I suoi teoremi pittorici solidificano le assenze, rendono visibile quel vuoto che lo spettatore non può fare a meno di fissare, nell’attesa
infinita e vana che qualcosa accada. Anche Folco Chiti Batelli (Firenze, 1932 – 2011) dipinge la realtà: è un pittore di paesaggi urbani, che ha la spiccata capacità di astrarre da una città gli aspetti più sconosciuti: le sue tele rendono protagonisti soggetti anonimi, come case di periferia imponenti e dimenticate, nodi autostradali o semafori, elevandoli a una cifra di eleganza. È come se Chiti Batelli vedesse le cose dal finestrino di un’automobile in corsa, così che tutto diventa una striscia fuggente, più che un’immagine. Questi soggetti impersonali danno forma ai suoi stati d’animo, prevalentemente a una malinconia, che talvolta esprime inquietudine e una sorta di disagio esistenziale.
La leggerezza come un dono naturale ha accompagnato Anne Donnelly (Belfast, 1932) in una vita a tratti molto pesante. Da oltre quarant’anni risiede a Tivoli, in una casa di campagna in mezzo alla natura e proprio la natura è, da sempre, protagonista indiscussa delle sue opere. È una liturgia intima, una sorta di rituale osservarla costantemente e quotidianamente; non potrebbe mai vivere in città dove la terra in larga parte è coperta dal cemento e non può respirare. E Anne ha bisogno di questo respiro. La raffinatezza con cui dipinge non ne sminuisce la potenza espressiva: rivolge gli occhi al cielo e non sceglie soggetti accattivanti, si esprime attraverso il battito di creature minori, gallinelle color cipria, color ruggine, ampi paesaggi, solcati da voli di bianchi gabbiani, il mare e le insenature della sua Irlanda, giardini in fiore, nature morte e figure femminili, che sembrano emergere da un surreale passato. Immagini soffici, che diventano gentili visioni poetiche dei suoi viaggi e del suo mondo.
Scandalo e denuncia sociale caratterizzano i cinquant’anni di attività artistica ininterrotta di Simon Gaon (New York, 1943), coi suoi ritratti di tossici, lavoratori intenti a pranzare nei fast food, giornalai e spacciatori, prostitute e homeless: ogni essere vivente, che sia umano o animale, ha il suo posto nel disegno del creato. Gaon dipinge senza esitazione, abolendo il disegno preliminare e creando una pittura di getto. Non c’è né tempo né spazio per edulcorare la realtà. I suoi ritratti sono introspettivi, psicologici, eppure energetici, e rispecchiano l’inquietudine del vivere in un mondo ormai privo di fede e ideologie. Le figure umane sono le protagoniste indiscusse anche delle composizioni di Wolfgang Alexander Kossuth (Pfronten, 1947 – Milano, 2009), artista sofisticato, elegante e attento che incarna il connubio perfetto tra l’amore per la musica e l’abilità nelle arti figurative, che trasferisce principalmente nella scultura. Le sue opere trasudano una bellezza classica e sensuale, che raggiunge equilibri inaspettati. Scolpisce i volti di politici, artisti, fanciulle, ricercando sempre energia e dinamismo, armonia e teatralità, tensione e intensità. Mentre Kossuth sperimenta diverse possibilità espressive con l’obiettivo di raccontare l’essenza dell’uomo, Marialuisa Tadei (Rimini, 1964) mira a rivelare la bellezza del divino insita nella natura dell’uomo e nel cosmo. Artista spirituale, per le sue sculture predilige la luce e il colore nella loro essenza decorativa e simbolica, e la sua estetica modernista fa leva sull’estasi della visione percettiva e tattile, su ritmi organici precisi che trovano poi realizzazione anche in grandi opere di arte ambientale, in cui aspira a far convivere leggerezza e pesantezza. Poliedrica per stili e materiali, inizialmente si diletta con il ferro, il metallo e le piume e poi si avvicina a altre tecniche come il mosaico in vetro, il plexiglas, la vetro resina epossidica, l’acciaio, l’onice, l’alabastro e il marmo. Questo ultimo elemento la accomuna senz’altro a Filippo Dobrilla (Firenze, 1968 – Meldola, 2019), l’artista-speleologo. Mosso da un desiderio di isolamento e da un’idea di arte pura e antica, Dobrilla dedica la sua vita alla lavorazione della pietra e dei materiali antichi. Studia la natura e il proprio corpo, creando l’habitat ideale in cui scolpire e modellare.
Un artista erroneamente etichettato come eccentrico, quanto piuttosto imbarazzato dalle lusinghe e dal successo, che raggiunge la sua massima realizzazione scolpendo in una grotta delle Alpi Apuane, nel cuore della terra a 650 metri di profondità, nel marmo, un gigante nudo e addormentato. Con lo scalpello, sulla monolitica roccia, nell’oscurità della caverna.
Le opere di Marco Ferri (Tarquinia, 1968) si ispirano allo scorrere del tempo e si nutrono dello stupore per la bellezza del mondo. Incuriosiscono i suoi titoli, caratterizzati da giochi di parole, che lasciano ampio margine all’ambiguità e alla fantasia. Il denominatore comune nella sua produzione artistica è senz’altro l’utilizzo della forma scultorea per cercare, attraverso la materia, di dare forma astratta a quello che non si vede, ma che si sente dentro. Ferri esplora – attraverso la carta, i colori, la cera, il legno, il ferro, il vetro – l’infinito, il silenzio, lo Spirito. Dall’arte astratta all’arte strumento di ricerca e racconto della società, quella società di massa che vive in periferia, ai margini del mondo, ma che è orgogliosa della sua integrità. È un dovere, per Giovanni Iudice (Gela, 1970), focalizzare l’attenzione sugli ultimi e in particolare sui clandestini, i profughi, gli immigrati, che lui ritiene le vere icone della contemporaneità. Dipinge ciò che vede, senza abbellimenti, mosso da una forte emozionalità in bilico tra piacere e sofferenza. Una pittura, quella di Iudice, che rappresenta la realtà e fa riflettere su quei valori umani che, troppo spesso, vengono offuscati dal lusso e dalla superficialità.
Un mondo ludico e giocoso è quello di Matteo Peretti (Roma, 1975), anche lui sarcastico indagatore questa volta dei meccanismi che dominano la società attuale. Le sue scelte artistiche diventano un atto di denuncia sociale: temi come lo sfruttamento delle risorse planetarie e il consumismo sono affrontati creativamente, spesso attraverso la chiave dell’ironia. L’estetica delle installazioni di Peretti – realizzate con materiali poveri, di scarto e di uso quotidiano, affinché l’arte sia universale – è allora complementare, ma non per questo secondaria, allo scopo sociale.
La bellezza delle tele di Roberto Ferri (Taranto, 1978) rapisce al primo sguardo, quasi come se il cervello non riuscisse a razionalizzarla. È un tripudio di elementi, che rimandano alla grande tradizione rinascimentale e barocca, e attraverso i quali Ferri ha saputo reiventare in chiave contemporanea e virtuosa la pittura classica. Dopo lo stupore iniziale, infatti, ci si accorge che la sua ricerca implica un discorso crudo, provocatorio, e tematiche che vanno ben al di là della bellezza ideale: il sogno e i meandri dell’inconscio, il sacro e il profano, la spiritualità e la mitologia. I personaggi, eroici e trionfanti, lasciano emergere le pulsioni più intime, in opere cariche di un erotismo drammatico.
Un pressante senso di abbandono pervade le opere di Emanuele Giuffrida (Gela, 1982), che sceglie di rappresentare spazi estremamente inospitali, scarni, inespressivi e desolati. Autobus vuoti, ospedali abbandonati, sale da biliardo in cui non c’è traccia di gioco e in cui raramente compaiono solitarie figure. È qui che si rivela la forza della sua arte, capace di catturare la psiche di chi osserva. Quasi una solitudine pressante, assoluta, definitiva che sancisce il momento ideale in cui dire addio perché l’addio deve avere un senso, l’addio va detto quando si è tristi, soli e alla fine.